Dalla leggenda di pietra
al museo delle Regole:
salviamo Castelcapuano

Dalla leggenda di pietra al museo delle Regole: salviamo Castelcapuano
di Vittorio Del Tufo
Domenica 1 Marzo 2020, 18:00 - Ultimo agg. 2 Marzo, 08:20
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«Quando il giardino della memoria inizia a inaridire, si accudiscono le ultime piante e le ultime rose rimaste con un affetto ancora maggiore. Per non farle avvizzire, le bagno e le accarezzo dalla mattina alla sera: ricordo, ricordo, in modo da non dimenticare».
(Orhan Pamuk)

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Castelcapuano è un luogo di accumuli, di ombre, di memorie. Come l'intera città. È un luogo che va attraversato nello spazio, ma anche nel tempo. Durante il periodo angioino fu utilizzato come dimora da sovrani illuminati e dotti (non tutti, non sempre), che vi ospitarono personaggi illustri come Francesco Petrarca. L'autore del Canzoniere vi soggiornò nel 1370: il Papa, Clemente VI, lo aveva spedito a Napoli per ottenere la liberazione di alcuni prigionieri: tre fratelli, figli della casata dei Pipini, fatti imprigionare da re Roberto d'Angiò. Durante il regno di Giovanna I (1343-1382) il Castello fu sottoposto a un prodigioso restauro, reso necessario dopo il devastante saccheggio subìto ad opera delle truppe di Luigi I d'Ungheria, che furono poi costrette ad abbandonare la città per l'arrivo della peste nera. Al tempo di Giovanna II, sorella di re Ladislao, regina di Napoli dal 1414 al 1435, il Castello fu invece testimone del brutale assassinio di messer Sergianni, Caracciolo del Sole, gran siniscalco e favorito della regina.

Di quell'eccidio risuonano ancora i passi. È una notte d'agosto del 1432. A Castelcapuano un gruppo di uomini fa irruzione nella stanza da letto del temuto (e odiatissimo) Gran Siniscalco del regno angioino. Poche ore prima erano state celebrate le nozze tra suo figlio, Troiano, e la figlia di un altro potente notabile del regno. L'uomo è attirato in una trappola:
«Aprite la porta, Sergianni, la regina sta morendo!».
I sicari lo ammazzano con venti colpi di pugnale, poi sequestrano il figlio. In quei giorni un ignoto autore compone quella che Benedetto Croce definì la prima canzone politica creata a Napoli:
«Muorto è lu purpo e sta sotto la preta; muorto è ser Gianni figlio de poeta...».
Si disse, poi, che ad armare la mano dei sicari sarebbe stata proprio la regina di cuori: per mettere fine, una volta per sempre, alle sfrenate ambizioni del suo consigliere, sempre più avido di potere e ricchezze.

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Dal Salone dei Busti di Castelcapuano, dedicato alle figure storiche della classe forense napoletana, si accede (in teoria, visto che il luogo è off limits per pubblico) alla splendida Cappella della Sommaria, piccolo gioiello incastonato nel cuore del Castello. La cappella conserva la memoria tanto del Pedro che la eresse - il viceré spagnolo don Pedro de Toledo, nel 1540 - quando del Pedro che la decorò, sette anni dopo: il pittore spagnolo Pedro de Rubiales, detto Roviale Spagnolo, allievo di Giorgio Vasari. «Quasi per una sorta di horror vacui, il Roviale tese a riempire tutti gli spazi restanti vuoti della volta con figure di Virtù e grottesche. In epoca imprecisata gli affreschi furono ricoperti con calce e pertanto non furono citati dagli autori delle guide napoletane tra XVII e XIX secolo. La riscoperta di questo straordinario ciclo avvenne verso 1860, quando l'intero castello fu oggetto di un più ampio restauro» (Clelia Abate, Daniela Castaldi, Castelcapuano, nove secoli di storia, www.fondazionecastelcapuano.it). Qui alla vigilia dei grandi processi, i presidenti della Sommaria si raccoglievano in preghiera prima di decidere sulle condanne da applicare ai sudditi.

Era stato, nel 1540, il viceré don Pedro de Toledo a stabilire che i cinque tribunali sparsi in vari luoghi della città venissero riuniti a Castelcapuano, che divenne così, da fortezza e reggia, il luogo dove si celebravano i riti spesso crudeli della giustizia: ovvero il temuto palazzo della Vicaria. Le teste recise dei condannati a morte venivano esposte nelle gabbie di ferro messe in bella mostra all'angolo del Castello in direzione di via Carbonara.

Proprio davanti all'ingresso principale di Castelcapuano sorgeva la colonna infame di Napoli, sulla cui base erano costretti a salire i debitori insolventi o che venivano dichiarati falliti. Chi, non possedendo più nulla, non fosse stato in grado di onorare i suoi debiti, doveva salire sulla base di marmo, calarsi le brache e mostrare il fondoschiena. Una punizione esemplare che veniva comminata, il più delle volte, con l'incitamento di orde di ragazzini schiamazzanti. Fischi e urla di acclamazione degli scugnizzi accompagnavano il pubblico atto di contrizione del debitore insolvente. Quest'ultimo non doveva solo abbassarsi i pantaloni ma anche sbattere il sedere tre volte sulla colonna, tra gli squilli di tromba del banditore, pronunciando la frase:
«Cedo bonis/chi ha da avere/si venga a pagare».

Il denudamento e l'esposizione del glutei avevano il compito di rendere chiaro che il povero debitore sarebbe stato disposto a cedere tutto, ma proprio tutto quello che gli era rimasto, per risarcire i creditori. Alcune espressioni napoletane, come «stong cu' 'o culo 'a Vicaria» e «mannaggia a culonna», secondo molti, nascerebbero da questa umiliante pratica. L'umiliazione pubblica subita dal debitore davanti alla colonna sarebbe all'origine anche dell'espressione «cu ' na mana annanze e n'ata arreto», comunemente adoperata per indicare una persona che se ne torna a casa umiliato e a mani vuote. Nella parlata popolare la formula «cedo bonis» divenne «zita bona»; fu poi lo stesso viceré, nel 1546, ad abolire la vergognosa esibizione sostituendola con un'altra meno oltraggiosa: il debitore doveva restare in piedi davanti alla colonna, immobile e muto, ma perlomeno era esentato dal mostrare il fondoschiena ai passanti.
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Nelle sale del tribunale della Vicaria, a Castelcapuano, si consumò, alla fine del 700, la sorte di Giuditta Guastamacchia: donna, stando alle cronache dell'epoca, tanto bella quanto crudele. Assieme al padre, e all'amante, Giuditta aveva irretito un chirurgo spingendolo ad uccidere suo marito. La donna fu impiccata in via dei Tribunali, per poi essere decapitata. Testa e mani le furono amputate e messe in mostra sulle mura della Vicaria. Il cranio di Giuditta è uno dei reperti anatomici conservati nel museo di Anatomia Umana. Una macabra leggenda racconta che ogni 19 aprile, nei corridoi del vecchio tribunale, si odano lamenti, strepiti e urla. Le urla di Giuditta, assassina per amore: ombra tra le ombre di Castel Capuano.
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Dalle memorie del passato alle sfide del futuro. La più ambiziosa prevede la realizzazione, a Castelcapuano, di un Polo museale denominato Museo delle regole, con l'obiettivo di storicizzare il percorso delle legislazioni, dalle antiche Tavole alle moderne Costituzioni. Lo vuole fortemente, e si sta battendo per realizzarlo, l'ex presidente della Corte d'Appello Buonajuto, che delle straordinarie memorie conservate a Castelcapuano può essere considerato il custode. L'obiettivo è quello di realizzare uno spazio espositivo fisso, un vero e proprio «percorso di legalità» completato dal ricordo, con un'apposita mostra fotografica, delle vittime innocenti della criminalità. Tra i reperti che rientreranno nel percorso museale anche la maschera di gomma con le sembianze dell'attore Lino Banfi utilizzata per una rapina negli anni 70 e un poltrona vescovile dell' 800 con legno dorato e velluto rosso sequestrata in casa di un boss di camorra che la utilizzava come trono, forse per intimorire i suoi ospiti. «Trono» oggi esposto, in attesa di una collocazione definitiva, nella storica biblioteca di Castelcapuano.

Sostenere il progetto di Bonajuto e della Fondazione Castelcapuano è, per le istituzioni che hanno a cuore le memorie della città, un imperativo categorico. Il Museo (o mostra permanente) delle regole sarebbe un'occasione straordinaria per rendere Castelcapuano un luogo vivo, da aprire anche ai giovani e alle scolaresche, e non più soltanto il testimone di pietra di un passato leggendario.
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