I vecchi e il mare, gli anni felici dei signori del vento

I vecchi e il mare, gli anni felici dei signori del vento
di Vittorio Del Tufo
Domenica 13 Ottobre 2019, 17:50
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«Mi stai uccidendo, pesce, pensò il vecchio. Ma hai il diritto di farlo. Non ho mai visto nulla di grande e bello e calmo e nobile come te, fratello. Vieni a uccidermi. Non m'importa, chi sarà a uccidere l'altro» (Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare).

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C'è una data incisa a caratteri d'oro nella storia sportiva della città: il 1960. Dal 29 agosto al 7 settembre di quell'anno il tratto di mare che ospitò la finale olimpica di Vela, classe Dragone, si ammantò di leggenda, e divenne un luogo della memoria. L'esito dell'ultima regata scatenò una lunga scia di proteste e una ridda di voci la cui eco, a distanza di quasi sessant'anni, non si è ancora spenta del tutto. Al comando del Venilia c'era Nino Cosentino, che i cerchi olimpici li sognava dall'età di due anni, quando il padre lo portava con sé sul 6 metri Sans Souci. Piccolo, abbronzatissimo, orgoglioso lupo di mare, per Cosentino quella era la regata della vita. Se la lasciò sfuggire dopo una partenza bruciante, per poi smarrirsi, inspiegabilmente, in vista del traguardo, al punto da far apparire il terzo posto sul podio olimpico la più sonora delle sconfitte.

A distanza di 59 anni da quel bronzo maledetto, sono ancora oggi in molti a chiedersi quali demoni abbiano popolato la mente del marinaio Nino in quell'arroventato agosto del 1960. Il podio più alto toccò a un principe dagli occhi feroci, Costantino di Grecia, che lo bruciò sul traguardo complice, forse, un'inchino di troppo del timoniere scugnizzo. Una vecchia ferita, mai rimarginata. Accuse, veleni, illazioni, sospetti. Un dramma sportivo e umano. Cornuto e mazziato, a Nino e ai suoi compagni di equipaggio (Antonio Ciciliano e Giulio Di Stefano) venne negato anche il secondo posto, per una squalifica inflitta loro dalla giuria.
Si disse, addirittura, che Costantino, che fu re dei greci dal 1964 al 1973, lo avesse corrotto con 25 milioni. «Capite? E chi mi conosce sa che ho sempre vissuto lavorando, e lavoro tuttora nell'ufficio industriale paterno insieme ai miei fratelli!», scrisse Cosentino in un furibondo articolo comparso sull'Unità nel marzo del 66.
L'anno dell'Olimpiade, nella classe Star, finirono a picco anche le ambizioni di Tino Straulino e Carletto Rolandi, i due campioni che prima, durante e dopo il 60 avrebbero vinto tutto. Ma zoomiamo ancora un attimo su Cosentino. Lo scugnizzo che nel 60 perse l'oro per un soffio era cresciuto a Posillipo, con i suoi fratelli e con i fratelli Postiglione, in quell'autentica scuola di vela che era villa Martinelli, in piazza San Luigi. Il loro maestro era un marinaio rozzo e semianalfabeta, Franceschiello, e di quegli epici e pioneristici anni Carlo Postiglione, eccellente timoniere e discendente di una delle più grandi famiglie sportive di Posillipo - con i Fiorentino, i Liotti, i Fiorillo - è geloso custode di ogni luminoso frammento, tanto da aver trasformato la sua bella casa di Chiaia in un labirinto di memorie.

Erano anni di capitani coraggiosi, e marinai d'altri tempi, molti dei quali cresciuti all'ombra di Agostino - per tutti Tino - Straulino, il velista venuto dal Nord, ma che amò Napoli più di tutti e fu il più leggendario di tutti. La memoria è tenace e a custodirla sono ragazzi ed ex ragazzi d'oro del calibro di Carlo Rolandi, il marinaio bello come un divo di Hollywood, che di Straulino fu l'inseparabile prodiere, o Pippo Dalla Vecchia, l'eterno giovanotto che raccolse il circolo Savoia dalle macerie e lo trasformò in una corazzata. E ancora Paolo Rastrelli, Vittorio Postiglione, Angelo Marino, Roberto Ciappa, Picchio Milone, Francesco De Angelis, Vincenzo Onorato e tanti altri.
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Nel 1960, dopo la favolosa notte del Ballo dei re a Palazzo Serra di Cassano, i velisti napoletani coltivarono il sogno che Napoli potesse diventare la Newport d'Europa, una grande città della vela. L'Équipe scrisse che la Canottieri Napoli era il più importante complesso nautico d'Europa, anche il rivale Circolo Posillipo era già una scuola di campioni. Di quel sogno è rimasto poco, i pionieri della vela ci sorridono da fotografie ingiallite. E la vela, con il tempo, è diventata la metafora perfetta della città. Una città di mare, ma ancora separata dal mare. Straordinariamente ricca di talenti, di energie creative, eppure incapace, troppe volte, di trasformare la passione in progetto, mentre i circoli nautici devono arrabattarsi per sopravvivere. Ma quante memorie, dietro quelle fotografie in bianco e nero.
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Negli anni a cavallo dei Sessanta, i velisti napoletani formavano una enclave. I praticanti erano pochi, ma avevano entusiasmo e vivevano di amicizia e acqua salata. A quegli anni Carlo Franco, giornalista di robuste e moltplici passioni, ha dedicato una delle pagine più belle del suo libro Quando Napoli andava a vela, racconti di mare e di un tempo che fu, scritto con Paolo Rastrelli e pubblicato da Tullio Pironti. «Il giorno trascorreva aspettando la notte. Che si consumava nei saloni dei circoli o al Trocadero, al Lloyd, all'Harry's bar di Santa Lucia e, dulcis in fundo, allo Shaker di Angelo Rosolino, il signore della notte. Il parterre, come sulla Croisette, era affollato di ospiti famosi, che si davano il cambio in un frenetico tourbillon: Aristotele Onassis, Vittorio De Sica, impegnato in interminabili sedute al tavolo di gioco, soubrette d'eccezione, come la conturbante Coccinelle (nome d'arte di Jacqueline-Charlotte Dufresnoy) e cantanti di grido».
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Vela come palestra di vita, coraggio, umiltà. E di prodezze, soprattutto quando a reggere il timone c'è il Signore del Vento, Tino Straulino, che probabilmente, in vita, dovette fare un patto con Eolo anziché col diavolo. Era nato a Lussinpiccolo, oggi in Croazia, e durante la seconda guerra mondiale fu tra gli assaltatori del Gruppo Gamma che piazzarono le cariche esplosive sotto le navi britanniche nella rada di Gibilterra. Nella carriera militare raggiunse il grado di contrammiraglio. Al termine della guerra, nel corso dei lavori di sminamento nel golfo di Taranto, un ordigno bellico gli esplose vicino e lo rese quasi cieco. Eppure il suo mito non era Polifemo, ma Ulisse.
«Avrei voluto essere Ulisse, ma la mia navigazione si è fermata a Napoli. Non ho rimpianti, l'ho voluto io perché il Golfo è lo stadio del vento, affascinante e insidioso; ma se non sai come affrontarlo prende il sopravvento». Sapeva affrontarlo il vento, Straulino, perché a Napoli si sentiva a casa come a Lussinpiccolo, il ventre materno. Quella di Tino è la storia di un timoniere che ha vinto su tutti i mari ed è rimasto fedele alla vela di fatica, respingendo le lusinghe del professionismo. Da giovane, racconta Carlo Franco, aveva navigato da solo nell'Adriatico in compagnia del suo cane, da vecchio cominciò a navigare di notte, aiutandosi con il naso e con le orecchie per compensare la perdita della vista, indebolita dal soffio di pirite che lo aveva investito a Taranto. Solo a Napoli, raccontava Tino, è possibile navigare di notte, lasciandosi guidare dal profilo del Vesuvio «e dai lampi di fuoco dell'Italsider che lanciano segnali rassicuranti». Quando, nel 1965, senza ausilio dei motori, con una manovra da togliere il fiato, il capitano di vascello e già campione pluridecorato Agostino Straulino condusse l'Amerigo Vespucci fuori dall'imboccatura del porto di Taranto, strettissima e regolata da un ponte girevole manovrato a mano, l'alto comando della Marina gli inviò due lettere: una di encomio per la temerarietà della manovra, l'altra di condanna con relativi dieci giorni di arresto. Era Straulino, ed era unico.
Se ce l'ho fatta, ripeteva spesso, se il Golfo con me non ha preso il sopravvento è perché ho seguito i consigli di Piscione, un marinaio al quale devo tanto. Piscione era il mitico Salvatore Chianese, il nostromo del Molosiglio che fu un punto di riferimento per tanti velisti di razza. C'era anche lui, il 19 settembre 2003, tra le banchine fradice di salmastro, per assistere all'ultima veliata del vecchio marinaio, che sentiva approssimarsi l'ora della morte. E c'erano tutti i venditori ambulanti del Molosiglio, con l'acquafrescaia Ninetta che un tempo offriva al capitano, dopo l'allenamento, una mummarella di acqua suffregna. «Masto, vuoi una mano a scendere?», qualcuno chiese a Straulino, quel giorno. Agostino, o masto, lo fulminò con lo sguardo. «Un capitano scende da solo dalla sua barca», fu la risposta del dalmata dalla scorza dura. Se ne andò pochi mesi dopo, a 90 anni, alla fine del 2004. Quel giorno tutte le vele di Napoli vennero ammainate.
 
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