All'improvviso il genio:
gli anni di mastro Giotto
all'ombra del «Re Saggio»

All'improvviso il genio: gli anni di mastro Giotto all'ombra del «Re Saggio»
di Vittorio Del Tufo
Domenica 6 Novembre 2022, 20:00 - Ultimo agg. 7 Novembre, 11:36
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«Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio»

(Divina Commedia, Purgatorio, Canto XI)

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Maestro dell'arte. Signore della città. Familiaris et fidelis noster. Primo degli artisti. Una star - e che star! - alla corte dei re angioini: mastro Ambrogiotto di Bondone detto Giotto, il genio della pittura circondato sin dai primi anni di attività da un alone quasi leggendario, il maestro toscano dalle cui labbra pendevano in tanti, in Italia e in Europa, fu chiamato a Napoli nel 1328 dal re Roberto d'Angiò e nella capitale del Regno restò cinque anni, insieme alla sua nutrita bottega, lavorando in due luoghi simbolo della casata angioina: la chiesa di Santa Chiara e il Castel Nuovo.

Quelli di Giotto a Napoli sono luoghi della memoria. Che rimandano però a un periodo preciso, ed esaltante, della storia della città. Gli anni del grande pittore furono quelli di Roberto il Saggio (1277-1343), ricordato da Petrarca e Boccaccio come colto e generoso mecenate. Protettore degli artisti, che si affidavano a lui come ci si affida a un padre.

Vivere e lavorare a Napoli, in quel periodo, era un privilegio. Non solo per gli artisti. Alla fine del 1200 la capitale del Regno attirava come una calamita poeti, filosofi, pittori, scultori che qui sapevano di trovare una corte moderna ed illuminata. Nel 1224 Federico II aveva fondato la seconda università italiana, con carattere nettamente ghibellino in contrapposizione con quella guelfa nata a Bologna.

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Questa meravigliosa storia napoletana comincia con una lettera. È la lettera che Roberto d'Angiò recapitò attraverso il figlio Carlo, duca di Calabria, a mastro Ambrogiotto, pictore in Fiorenza. Il sovrano pregava Giotto di «adornare di lodevoli pitture» la fabbrica di Santa Chiara («monastero di donne») e la Chiesa Reale. Giotto ne fu entusiasta. Accettò l'invito e si sistemò, con tutti gli onori, a Porta Reale, che sorgeva nella zona dove oggi si trova il liceo Genovesi, a poca distanza dal Castello.

A Santa Chiara Giotto affrescò una scena della Crocifissione, un Compianto su Cristo morto e un Calvario, di cui sono rimaste solo poche tracce, alcune delle quali di incerta attribuzione, danneggiate in epoca vicereale, nel Seicento. Il re di Napoli, come racconta Alessandro Masi nel libro L'artista dell'anima, Giotto e il suo mondo (Neri Pozza) «teneva gran conto dell'ingegno di Giotto, da lui considerato familiaris et fidelis noster, tanto che il 16 marzo del 1332 volle fargli dono di un abito nuovo e costoso per dismettere i panni sudici di lavoro e un mese più tardi gli garantì pure un vitalizio annuo di dodici once d'oro, oltre che la nomina di Protopictor».

La corte angioina era stregata dal genio di Giotto. Al maestro toscano re Roberto affidò la decorazione della Cappella Palatina e della nuova Sala del Trono, a Castel Nuovo. Anche dei capolavori realizzati dal maestro al Maschio Angioino, rimane oggi, purtroppo, poco o niente: sono ancora visibili frammenti delle decorazioni sugli strombi dei finestroni della cappella di Santa Barbara, mentre sono scomparsi quasi del tutto gli affreschi profani detti degli Uomini Famosi: Alessandro, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Paride, Ercole, Sansone, Cesare. Un vero peccato, perché quegli affreschi - che conservano l'impronta di un artista già proiettato verso l'Umanesimo - manifestavano l'esistenza di un importante versante laico nei raffinatissimi ambienti culturali che ruotavano intorno a Roberto d'Angiò. Al Maschio Angioino, Giotto, reduce dai capolavori di Assisi, dipinse anche scene dell'Antico e del Nuovo Testamento e affrescò una cappella segreta poi distrutta dalla totale trasformazione del castello in età aragonese.

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I lavori per la costruzione del nuovo castello erano iniziati nel 1279.

La nuova reggia-fortezza, nelle intenzioni dei sovrani di casa d'Angiò, doveva sostituire le preesistenti residenze reali, ormai inadeguate. Troppo isolato il vecchio Castello Marino (Castel dell'Ovo), placidamente adagiato sul mare del mito e della leggenda; troppo vicino alle paludi dell'area orientale, e difficilmente difendibile, il Castel Capuano. La nuova reggia-fortezza - costruita negli anni di Carlo I d'Angiò nel cosiddetto Campus Oppidi, un pianoro compreso tra le mura occidentali della città e la collina di Pizzofalcone, dove sorgevano le rovine del Castrum luculliano - venne demolita pressoché completamente da Alfonso il Magnanimo.

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«Il soggiorno di Giotto a Napoli, la sua lunga attività al servizio del re saggio, Roberto d'Angiò, e le opere di grande impegno da lui intraprese in città, oggi in gran parte perdute, rappresentano e configurano una sorta di caso campione, una sfida e insieme un paradigma»
(Pier Luigi Leone de Castris)

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La Cappella Palatina è tutto ciò che resta del castello angioino. I lavori per la sua costruzione erano iniziati nel 1307, durante il regno di Carlo II. Era stato lo stesso re, nel fare testamento, a imporne il completamento al suo successore, Roberto.

Alessandro Masi, storico dell'arte e giornalista, segretario generale della Società Dante Alighieri, racconta nel suo libro come nel dipingere a Napoli le scene del Vecchio e Nuovo Testamento, Giotto fosse stato ispirato dalla figura di Dante, al quale era legato da una profonda amicizia. Dante era morto nel settembre del 1321 a Ravenna, e la notizia aveva raggiunto il pittore mentre stava terminando i lavori della Cappella Peruzzi in Santa Croce, a Firenze, con le storie di San Giovanni Battista. Una notte - Giotto era a Napoli da pochi mesi - «il poeta gli comparve in sogno quasi a volerlo ringraziare quale segno di pace e amicizia. Lo aveva voluto così ispirare dall'aldilà per ben dipingere, come fece a quel tempo, affinché re Roberto e la sua corte ne fossero soddisfatti».

Si diceva dell'alone di leggenda che avvolge ancora oggi la figura di Giotto. Tanti gli aneddoti, ne ricordiamo due. Ben prima dell'avvento del compasso, l'artista disegnò il cerchio perfetto, una O assolutamente priva di difetti la cui (solo apparente) semplicità convinse il papa, Bonifacio VIII, a commissionargli il proprio ritratto in occasione del Giubileo del 1300. Altrettanto leggendario è rimasto lo scherzo ai danni di Cimabue, che di Giotto fu il maestro. Un giorno l'allievo disegnò una mosca sulla tela a cui stava lavorando e Cimabue, credendola reale, provò a cacciarla con la mano.

A Roberto d'Angiò, il re saggio e appassionato d'arte e cultura che accolse Giotto come un famigliare, era legatissimo anche Francesco Petrarca. A Castel Nuovo l'autore del Canzoniere fu sottoposto a un autentico esame, che durò tre giorni. Petrarca fu ricevuto, con tutti gli onori, nella sala major della reggia-fortezza. Era la sala più grande e nobile del castello, con la sua volta alta 28 metri affrescata da Giotto. Ed era la stessa sala dove, quarantasette anni prima, Papa Celestino V si era tolto i paramenti del suo rango per vestire nuovamente gli antichi abiti di frate Pietro del Morrone, facendo «per viltade il gran rifiuto». Il giudice era un sovrano illuminato e dotto, Roberto d'Angiò. E il candidato emozionato come una matricola sarebbe diventato uno dei più grandi letterati di tutti i tempi. 

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