Sole, luna e Talia:
la storia maledetta
che diventò una fiaba

Sole, luna e Talia: la storia maledetta che diventò una fiaba
di Vittorio Del Tufo
Domenica 9 Febbraio 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Le fiabe non si inventano, si ricordano»
(Charles Perrault).
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«Talia, morta per una lisca di vino, viene lasciata in un palazzo, dove, capitato un re, ci fa due figli. Cadono in mano alla mogliera gelosa...».

Dimenticate il principe azzurro. Dimenticate Aurora, Re Stefano e il bosco delle fate. La storia che ispirò la Bella addormentata nel bosco era tutt'altro che adatta a un pubblico infantile e a raccontarla per primo, ispirandosi a un romanzo cavalleresco ambientato nel Medioevo, fu il giuglianese Giambattista Basile, ne Lo cunto de li cunti. Una delle più celebri fiabe della tradizione popolare europea - oggi ricordata soprattutto nella versione di Charles Perrault ne I racconti di mamma l'Oca (1697), in quella dei fratelli Grimm (Fiabe del focolare, 1812) e attraverso il celebre film d'animazione Disney del 1959 (Sleeping Beauty) - affonda le radici in un passato oscuro e tenebroso. La favola del grande autore napoletano - Sole, Luna e Talia - conteneva riferimenti diretti allo stupro, all'adulterio, alla vendetta e ad altri temi adatti al pubblico di aristocratici adulti cui si rivolgeva lo scrittore. Era una storia per certi versi maledetta, in cui non mancano riferimenti diretti al cannibalismo. Nel raccontarla Basile, che era nato a Giugliano nel 1566, si ispirò al Perceforest, romanzo cavalleresco medievale, che ne rappresenta dunque l'archetipo. Il racconto di Basile può dirsi alla base delle moderne versioni che hanno dato origine alla fiaba La bella addormentata così come la conosciamo. Nel Perceforest, e nella versione di Basile, non v'è alcun principe azzurro ma un re che stupra una donna addormentata a causa di un incantesimo.
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Le fiabe, diceva Italo Calvino, sono una «spiegazione generale della vita». Nate in tempi remoti, restano «serbate nel lento ruminìo delle coscienze contadine fino a noi». La letteratura popolare attinge alla tradizione orale dei popoli, assumendo forme diverse in contesti storici e culturali diversi. Basile conosceva bene il potere magico delle fiabe. Sapeva anche che l'idea di destinare queste storie ai bambini era solo un espediente per esprimere quella ciclicità necessaria al tramandare delle favole. «Il vecchio, che rappresenta la memoria, narra una storia al bambino che ascolta e che diventerà narratore a sua volta, ma secondo canoni e schemi diversi dettati anche dalle mutate condizioni sociali» (Angela Matassa, Leggende e racconti popolari di Napoli).

Ne Lo Cunto de li Cunti, o Pentamerone, il sonno non è frutto di un incantesimo ma di una profezia:
C'era una volta un gran signore che, essendogli nata una figlia chiamata Talia, fece venire i sapienti e gli indovini del regno suo a dirle la ventura, i quali, dopo vari consigli, conclusero che correva un gran pericolo per una lisca di lino.

Gli indovini del regno, dunque, annunciano che su Talia grava una maledizione: il pericolo mortale è simbolizzato da una lisca di lino. Il padre, allora, mette al bando ogni strumento suscettibile di ferire la bambina (lino, canapa e altro). La piccola Talia, tuttavia, una volta cresciuta scorge una vecchia con un fuso passare davanti al castello e incuriosita dall'oggetto la invita a salire, si punge il dito e muore. Il padre, sconsolato, la adagia in una stanza del castello, serra tutte le porte e se ne va per sempre.

Il re, vedutala, credendo che dormisse, la chiamò; ma poiché quella, per quanto egli facesse e gridasse, non rinveniva, riscaldatosi alla vista di quelle bellezze, portatala di peso a un letto, ne colse i frutti d'amore e, lasciatola coricata, se ne tornò al regno suo, dove non si ricordò per un pezzo di quello che gli era successo.

Nella favola di Basile nessun principe azzurro salverà la principessa. Ci imbattiamo invece in un altro re (già sposato) che molti anni dopo, trovando per caso Talia nel castello, ancora addormentata perché vittima del sortilegio, la violenta nel sonno. Dallo stupro nascono due gemelli, Sole e Luna, e sarà uno di questi a risvegliare la principessa dal suo sonno incantato, dopo che le avrà succhiato il dito facendo uscire la punta del fuso incantatore.

Il finale della fiaba di Basile è ancora più violento. Tornato nel suo castello, il re non fa che parlare di Talia e dei gemelli, a cui ha dato il nome di Sole e Luna, attirando su di sé le ire della regina sua moglie. La donna chiede a un servo di portarle i bambini, e incarica il cuoco di ucciderli e darli in pasto al marito fedifrago. Il cuoco, però, impietosito dai bambini, serve al re della selvaggina, facendo credere alla regina che si tratti dei neonati. La regina incalza il marito a mangiare: «Magna, ca de lo tuo mange!» (Mangia, mangia, è tutta roba tua!). Il re, indispettito dall'insistenza della moglie, e ignaro dei sottintesi, abbandona adirato il castello. La regina, schiumante di rabbia, fa venire Talia al castello e ordina che sia gettata nel fuoco.

Tu sei quella pezza fine, quella malerba che si gode mio marito? Tu sei quella cagna feroce che mi fa stare con tanti giramenti di coccia? Va', che sei arrivata al purgatorio, dove ti farò scontare il danno che m'hai fatto!.

La giovane si getta ai piedi della regina implorando pietà. Ma la regina, per nulla impietosita, conferma la condanna. Talia chiede di potersi liberare delle vesti prima di morire; la regina, avida delle perle che ornano gli abiti della principessa, acconsente. A quel punto sopraggiunge il re, al quale la moglie fa credere di avergli fatto mangiare i figli. L'uomo, disperato, ordina che la moglie bruci sul rogo che aveva preparato per Talia. Quando apprende che i figli sono salvi, ricompensa il cuoco per averli risparmiati e lo nomina primo gentiluomo di corte. Poi sposa Talia, che diventa regina.
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«Bisogna tradurre Basile a partire dal napoletano per conservare tutto il sapore, tutto il profumo, tutto il sublime e tutto l'osceno de Lo cunto de li cunti, anche conosciuto con il titolo di Pentamerone, secondo la struttura del libro che fa, ma finisce lì, un occhiolino al Decamerone: dieci vecchie contorte come gli escrementi sotto la luna raccontano dieci novelle al giorno per cinque giorni: cinquanta favole e i loro intermezzi, il libro miracoloso della felicità e del ridere... (Jean-Noël Schifano, Dizionario appassionato di Napoli).
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Non è mai stato accertato se Basile conoscesse il Perceforest o se avesse semplicemente ripreso dalla voce popolare temi folklorici diffusi in Campania. Nella sua versione, il castello del re, con il suo cortile e le sue fascine pronte ad essere arse nel camino, è ridotto all'apparenza di una modesta fattoria, mentre il numero dei valletti e servitori è ridotto ad un segretario ed un cuoco.

Alla versione pubblicata ne I racconti di Mamma l'Oca di Charles Perrault, La belle au bois dormant, si deve il titolo con cui oggi la fiaba viene comunemente indicata. Perrault, che prese il tema da Sole, Luna e Talia, lo edulcorò notevolmente: avendo dedicato le sue fiabe ad una dama e avendole date alle stampe rivolto ad un pubblico dell'alta borghesia, cercò di rimuovere dalla fiaba ogni aspetto perturbante ed enfatizzare valori morali quali la pazienza e la passività della donna.

Fate, orchi, eroi del passato. Miti e paure ancestrali, legate a credenze antichissime, trasfigurate nel linguaggio fiabesco. Basile ispirò i più grandi favolisti di tutti i tempi, da Charles Perrault ai fratelli Grimm fino a Italo Calvino che ha studiato a lungo (e raccolto) il patrimonio favolistico italiano, definendo il Pentamerone di Basile il sogno di un «deforme Shakespeare partenopeo». Per Benedetto Croce Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de' peccerille, pubblicato postumo nel 1634, è «il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari...». Croce si propose l'ambizioso obiettivo di sottrarre l'opera di Basile al «circoletto degli eruditi, degli specialisti e dei curiosi» e farlo conoscere al grande pubblico. La riabilitazione letteraria dell'autore del Pentamerone è uno degli innumerevoli motivi per i quali dobbiamo essere tutti grati a don Benedetto. 
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