«E diceva core core»,
l'amore a Napoli ai tempi del colera

«E diceva core core», l'amore a Napoli ai tempi del colera
di Vittorio Del Tufo
Domenica 26 Maggio 2019, 20:00
5 Minuti di Lettura
E il vero amore può
Nascondersi
Confondersi
Ma non può perdersi mai
Sempre e per sempre
Dalla stessa parte mi troverai

(Francesco De Gregori, Sempre e per sempre)
* * *
L'edificio al civico 23 di via Marinella non esiste più: venne demolito per far spazio alle nuove costruzioni di via Marina. Ed è un peccato, perché da quell'edificio affacciato sul mare, oggi un luogo della memoria, prese il largo una delle canzoni napoletane più famose (e amate) di sempre. Era il 1885, ed era di maggio. Salvatore Di Giacomo aveva solo 25 anni. Di poesie ne aveva scritte già tante, ma quando rilesse le strofe che aveva appena composto non poté fare a meno di aggiungere in calce al manoscritto la frase «Pascà, vide quant'è bella chesta». Pascà era il grande musicista Pasquale Mario Costa, che con il poeta aveva dato vita a uno straordinario sodalizio artistico. Cosa provò Costa quando lesse il testo dell'amico? Come reagì? Sappiamo che due giorni dopo recapitò al domicilio di Di Giacomo un rotolo con la melodia, accompagnato da una postilla: «Salvato', e chesta manco è scema!» Nasceva così, dall'incontro tra di due straordinari talenti, uno dei più grandi capolavori in musica di tutti i tempi. Nasceva un anno dopo l'epidemia di colera del 1884, che aveva fatto più di 8000 morti, tra cui il padre di Salvatore Di Giacomo. E nasceva nel cuore di una certa Napoli che sarebbe stata sventrata, qualche anno più tardi, dal piccone del Risanamento.
* * *
Due innamorati si ritrovano in un giardino colmo di ciliegie. Si preparano all'addio: il ragazzo deve separarsi dalla sua amata, probabilmente a causa degli obblighi militari. Lei, con gli occhi colmi di lacrime, non vorrebbe lasciarlo andar via.
E diceva: Core, core!
core mio, luntano vaje,
tu mme lasse e io conto ll'ore...
chissà quanno turnarraje?
È il mese di maggio ed i due si promettono di rincontrarsi nello stesso posto esattamente un anno dopo, sempre di maggio, per tener fede, entrambi, alla promessa d'amore.
Rispunnev'io: Turnarraggio
quanno tornano li rrose
si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stóngo ccá
Si stu sciore torna a maggio,
pure a maggio io stóngo ccá.
* * *
Il 1885 è un anno molto intenso e frenetico a Napoli. La città è uscita in ginocchio dalla drammatica epidemia dell'anno precedente. In quei mesi Guglielmo Melisurgo, architetto, ingegnere e studioso del sottosuolo, compie un'impresa per quell'epoca rivoluzionaria. Si cala, con il fido pozzaro Nunzio, nei labirinti di pietra della città capovolta ed esplora a uno a uno gli antichi acquedotti, mettendone in luce lo stato pietoso. «A Napoli il colera si beve», ripeteva la gente in quei drammatici giorni. Il ventre della città, come diceva Victor Hugo, era l'Intestino del Leviatano, la coscienza sporca della metropoli. Il 7 settembre 1884, nel mezzo dell'epidemia, re Umberto era piombato in città accompagnato dal presidente del Consiglio, Agostino Depretis. Qualche giorno prima il sovrano era stato invitato a Pordenone per assistere ad alcune corse ippiche. A sorpresa invece Umberto annuncia la sua presenza nella città martoriata con un telegramma che passerà alla storia. Il re chiede di entrare nei quartieri bassi, si fa accompagnare nei ricoveri dei colerosi per dare conforto ai malati, visita la zona del vecchio porto. La celebre frase «A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore; io vado a Napoli» è incisa in una stele posta in corso Amedeo di Savoia, all'altezza del ponte della Sanità.

È in questo contesto storico e sociale che prende forma il capolavoro di Di Giacomo e Costa. L'amore dei due ragazzi, che si giurano eterna fedeltà nel giardino di ciliegie, è un inno alla vita, alla speranza e alla rinascita. Soprattutto, è un monumento all'amore universale. Nel frontespizio dello spartito è stampata la dedica «A Carolina»: si tratta di Carolina Sommer, figlia di Giorgio Sommer, un famosissimo fotografo napoletano di origine tedesca, assurto al ruolo di fotografo ufficiale del re Vittorio Emanuele e titolare di ben quattro studi fotografici a Napoli.
Costa, il compositore, è pazzo d'amore per Carolina. Per lei farà anche qualche colpo di testa, e non esiterà a interrompere un'applaudita tournée in Europa. È per questo motivo che il musicista arriva a chiedere a Di Giacomo di chiamare con il nome di Carolina le donne delle sue canzoni. Alla fine riuscirà a condurre la ragazza all'altare, anche se il matrimonio durerà solo cinque anni a causa dei continui tradimenti di lui.
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Nel centenario della nascita di Salvatore Di Giacomo, il 20 marzo 1960, una stele fu posta nella piazza di Posillipo intitolata al Poeta. Di Era de maggio si innamorarono tutti. Se ne invaghì anche Richard Wagner, il grande compositore tedesco, che in quegli anni decise di scritturare un posteggiatore perché gli intonasse quelle note sublimi. Era Giuseppe Di Francesco, in arte o Zingariello. Che storia, quella dello Zingariello. Quando l'autore del Parsifal lo sentì cantare a Villa Dorotea, ne rimase talmente colpito che volle portarlo con sé a Bayreuth, dove fu applaudito e ammirato ogni sera dagli amici del compositore. Narra la leggenda, ripresa da Vittorio Paliotti nella sua Storia della canzone napoletana, che non fu la nostalgia a riportarlo a casa, bensì una decisione dello stesso Wagner, al quale cominciavano a girare le scatole perché o Zingariello «gli metteva sistematicamente incinte tutte le cameriere».
* * *
Trascorre un anno, l'innamorato mantiene la sua parola e ritorna in quel giardino che fece da sfondo alla sua promessa. Passa il tempo, il mondo cambia, ma l'amore vero no, nun vota vico. E la ferita dell'amore non si sana, ll'acqua, llà dinto, nun se sécca maje. Torna maggio, riesplodono i profumi della primavera e il giovane innamorato si ritrova a intonare, con la sua amata, la canzone che un anno prima aveva accompagnato quel doloroso distacco. La promessa d'amore è rinnovata.
E te dico: Core, core!
core mio, turnato io só'
Torna maggio e torna ammore:
fa' de me chello che vuó'!
Torna maggio e torna ammore:
fa' de me chello che vuó'!
È l'epilogo. C'è chi ha ravvisato, nella lirica, il desiderio di esprimere lo smarrimento del Poeta nei confronti della bellezza del creato: le ciliegie, l'aria, il giardino, gli odori, la fontana, un senso di appartenenza alla natura (un incanto di elementi primevi, annotò il critico letterario Francesco Flora) che rende evidente l'affinità tra Di Giacomo e i grandi artisti dell'impressionismo. E poi c'è la circolarità del tempo, l'eterno ritorno che vede la ciclicità delle stagioni - torna maggio e torna ammore - a vivificare l'amore e la vita. Su tutto, c'è la melodia di Costa, che «si dipana lieve, quasi eterea nella strofa, e nel ritornello evita espansioni che potrebbero turbare la delicata atmosfera» (Pietro Gargano, Gianni Cesarini, La canzone napoletana). L'atmosfera sospesa nel tempo di due ragazzi che ai tempi del colera trovano il coraggio di lasciarsi contagiare dalla promessa di un amore eterno.
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