Gli occhi di Marotta
sulla città ferita:
il nuovo Oro di Napoli

Gli occhi di Marotta sulla città ferita: il nuovo Oro di Napoli
di Vittorio Del Tufo
Domenica 12 Aprile 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Il mare è a due passi, assorto e solenne davanti a questo martirio come un'acquasantiera. Non appena il cielo sarà sgombro di minacce, i napoletani intingeranno le dita in questa cara acqua benigna (...) e ricominceranno a lavorare e a ridere»
(Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli).
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Chissà don Vito Cacace cosa penserebbe di quello che sta succedendo. Chissà che capa di chiacchiere ci farebbe. E chissà cosa ne penserebbero l'ex bidello Federico Sòrice e i suoi «alunni», il fattorino telegrafico Vincenzo Aurispa, il barbiere don Antonio Pagliarulo, il ciabattino don Catello Debbiase, il fruttivendolo «guappo e becco» Salvatore Cadamartori, e don Rosario Nèpeta detto il gobbo. Probabilmente se ne starebbero rintanati anche loro nelle proprie minuscole abitazioni del Pallonetto. Così come se ne stanno rintanati, oggi, dentro le pagine dei libri scritti dal loro inventore, Giuseppe Marotta. I bottegai e i garzoni di bar, i pescatori e i contrabbandieri, il popolo del Pallonetto e di Santa Lucia che accorreva alle lezioni di don Vito e di Federico Sòrice, oggi non potrebbero mettere il naso fuori dai loro bassi. E il loro burattinaio, l'autore de L'oro di Napoli, Gli alunni del sole e Gli alunni del tempo, se ne starebbe pure lui rintanato nella casa di via Monte di Dio, che aveva scelto perché vi abitava il più celebre cardiologo di Napoli, il professor Mattioli. E lui, Marotta, afflitto da mille mali, per lo più immaginari, accanto a quel luminare si sentiva più tranquillo. Così, almeno, confidava agli amici.
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Per i gradoni del Pallonetto Marotta ci saliva davvero. Una, due volte a settimana. E proprio come il suo personaggio, don Vito Cacace, chiamava a raccolta pescatori, contrabbandieri e bottegai, e si metteva a leggere i giornali commentando le notizie del giorno. «Amici miei, avete visto la prima pagina del Mattino? Il titolo a tutta pagina: Coprifuoco». Visti con gli occhi di Marotta - che prima e meglio di altri ha indagato sul carattere più autentico del popolo napoletano, sulla sua astuzia, sull'ingegnosità che fece sbarcare il lunario a tanti disperati dopo la lunga notte della guerra - il distanziamento sociale e la quarantena imposti dall'emergenza sarebbero certamente apparsi assurdi, surreali, beffardi. Avrebbe dedicato certamente uno dei suoi racconti ai panari con la spesa, con il cibo, che pendono dai balconi verso la strada per aiutare chi non riesce a sfamarsi. I sacrifici di ieri e i sacrifici di oggi, la solidarietà, la resilienza. In definitiva, il nostro modo di stare al mondo, che oggi viene messo nuovamente alla prova.

L'arte di sfottere noi stessi e la vita, che ci appartiene come una seconda pelle. E che siamo costretti a mettere oggi al servizio di una disciplina ferrea. Perché è la disciplina che - anche per una collettività, per una comunità di uomini e donne - può fare la differenza tra la vita e la morte, tra il passato e il futuro. Questo insegnerebbe don Vito Cacace ai suoi alunni; questo, probabilmente, avrebbe insegnato Marotta con la sua scrittura. E con i suoi meravigliosi racconti, in grado di spaziare, come pochi altri, dal paradiso all'inferno.
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Napoli, metà degli anni 50. Tre uomini discutono a bordo di un vaporetto diretto a Capri. Il primo è un famoso scrittore, ipocondriaco cronico, e tanto per non perdere l'abitudine si lamenta. Sto male. Ma no che non stai male. Ti dico che sto male. Ma no che non stai male. Il secondo è un giornalista, suo amico, che cerca di rassicurarlo, di tenere a freno le sue paturnie. Il terzo è una persona incontrata per caso, che fornisce allo scrittore (ipocondriaco) un paio di numeri di telefono di bravi medici di Capri. I tre uomini sono Giuseppe Marotta, l'autore de L'oro di Napoli, Vittorio Paliotti, autore di numerosi e splendidi volumi dedicati a storie e memorie napoletane, e l'ex capo dello Stato Giovanni Leone, all'epoca presidente della Camera.

L'episodio, mirabilmente descritto da Paliotti nel libro Napoletani si nasceva, fotografa un periodo felice della vita di Marotta. La sua terza vita. La prima, trascorsa nella miseria più assoluta, si svolse in uno stanzone senza finestre al pian terreno del campanile di Sant'Agostino degli Scalzi, a Materdei. Un basso che dall'età di sette anni il piccolo Giuseppe - nato il 5 aprile 1902 in via Nuova Capodimonte (attuale corso Amedeo di Savoia) da una famiglia originaria di Avellino - divise con le sorellastre Ada e Maria, nate dal primo matrimonio di suo padre, l'avvocato Giuseppe senior.

Il quartiere di Materdei farà da sfondo a tanti racconti de L'oro di Napoli. Le sue ombre, le sue miserie, le sue speranze e i suoi sfinimenti faranno da cemento a una narrazione intensissima, palpitante di vita. Le sue «madri», le madri di Materdei, saranno al centro di uno dei libri più belli dello scrittore. Che non era ancora tale quando, all'età di tredici anni, confidò a sua mamma di aver scritto una poesia. La prima poesia della sua vita.

Era il 1915. Due anni dopo, nel 1917, alterando la propria data di nascita Giuseppe riuscì a farsi assumere alla Compagnia del Gas. Mentre tutti gli uomini validi, in quel periodo, diventavano carne da macello e venivano mandati al fronte, Marotta si addentrava nei vicoli, saliva scale, penetrava nelle stamberghe. Si immergeva nella carne viva di una città fatta di riso e di pianto. Ricavandone la linfa vitale che avrebbe nutrito il futuro scrittore.
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«Il dolore dei napoletani di tutti i ceti è purtroppo autentico, pensai. Essi inventano Napoli, si raccontano con qualche enfasi, con qualche compiacimento; ma trovano sollievo e consolazione in questo recitarsi: il giorno in cui deponessero o frantumassero lo specchio innanzi al quale si mettono a soffrire, non vorrei essere né a Napoli né vivo». (Giuseppe Marotta).
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La seconda vita di Marotta si svolse a Milano. Il 6 gennaio 1925, a 23 anni, con le tasche gonfie di figurine di santi donategli dalla madre, Marotta monta sul treno per il Nord. E i giorni dispari, poco alla volta, cominciano a diventare pari. Le prime collaborazioni con i giornali. I primi racconti finalmente pubblicati. L'assunzione alla Mondadori come correttore di bozze. Il passaggio alla Rizzoli e la nomina a redattore. Il sodalizio con Cesare Zavattini. Una bella casa a Porta Garibaldi, dove dimenticare i fantasmi dell'infanzia.

La terza vita, per Marotta, inizia nel 1947, con la pubblicazione (con l'editore Bompiani) della raccolta di racconti L'oro di Napoli, dalla quale Vittorio De Sica trarrà nel 1954 un film con Totò, Sofia Loren, Eduardo De Filippo, Silvana Mangano e Paolo Stoppa. la consacrazione. Dopo L'oro di Napoli Marotta lancia una ventina di altri volumi, dei quali San Gennaro non dice mai no, A Milano non fa freddo, Gli alunni del sole e Le Milanesi furono quelli che ottennero maggior successo. Scrisse anche numerose canzoni. Sono il mio «vizio di penna», diceva.

I lettori lo idolatravano. Lui intratteneva gli amici ai tavolini di un bar della Galleria Umberto. Nell'ambiente, furono in molti a non perdonargli il successo. Reagì a modo suo: come confidenti e amici scelse un paio di guappi, due o tre magliari, qualche venditore ambulante. E il popolo dei pescatori, dei contrabbandieri e dei bottegai del Pallonetto Santa Lucia, i suoi «alunni del tempo». Che intratteneva commentando i fatti del giorno, ed ascoltando il loro parere sull'universo mondo. Ad accompagnarlo, spesso, proprio Vittorio Paliotti, che a quell'epoca lavorava per il settimanale Oggi.
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Chissà se Giuseppe Marotta, messo davanti all'incubo distopico della sua città in quarantena, ripeterebbe quello che scrisse in una delle sue pagine più appassionate: il vero oro di Napoli non è la rassegnazione passiva, o il fatalismo, ma «la possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza». La pazienza di chi torna a rialzarsi dopo ogni sconfitta, dopo ogni battuta d'arresto, dopo ogni incaglio della storia. Anche se questo incaglio ti costringe a restare per settimane e settimane tappato in casa, in attesa di respirare l'aria pulita della vita che ricomincia.
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