Bud Spencer, la figlia Cristiana e l'amore per Napoli: «La vita è bella, futtetenne»

Bud Spencer, la figlia Cristiana e l'amore per Napoli: «La vita è bella, futtetenne»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 19 Febbraio 2021, 14:00 - Ultimo agg. 20 Febbraio, 10:13
5 Minuti di Lettura

Il suo motto è stato futtetenne. Che non voleva dire fregatene degli altri, anzi, il contrario: dai valore solo alle cose importanti, il resto lascialo pure andar via. Tanto ne era convinto che aveva intitolato così, Futtetenne, pure una delle sue canzoni, quella che più spesso negli ultimi anni canticchiava e faceva ascoltare a figli e nipoti. Cristiana, secondogenita di Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer - perché la sua birra preferita era la Budweiser e amava l'attore Spencer Tracy - racconta l'altra faccia del gigante buono del cinema italiano, il mitico Piedone, quello che mangiava fagioli e menava cazzotti in coppia con Terence Hill, al secolo Mario Girotti, prima negli Spaghetti western, poi nelle commedie anni Ottanta.

Modi di dire napoletani, dunque.
«Papà amava la sua città. Era uno di quelli che le origini non le ha mai dimenticate: raccontava spesso che se nella sua vita era riuscito a cavarsela in molte circostanze, lo doveva al fatto di essere nato a Napoli».

In che senso?
«Scaltrezza, presenza di spirito, furbizia, velocità nel risolvere i problemi senza mai perdere il sorriso. Aveva fatto tesoro della filosofia partenopea benché fosse andato via presto».

Fino a che età Bud Spencer ha vissuto a Napoli?
«Aveva sedici anni quando, a malincuore, con la famiglia, lasciò la città: il nonno perse il lavoro e decise di andare a cercarlo altrove. Abitavano a Santa Lucia, in via Generale Orsini, nello stesso palazzo di Luciano De Crescenzo».

Quindi si conoscevano?
«Ottimi amici. Lo ricordavano volentieri quando si trovavano a raccontare della loro giovinezza. Papà volle che a scrivere la prefazione del suo libro su cucina e vita, Mangio ergo sum, fosse proprio De Crescenzo».

Suo padre se ne intendeva anche di ricette?
«Fine buongustaio, mangiare gli piaceva, d'altronde si vedeva, ed era pure un ottimo chef».

Figura poliedrica.
«Nella sua vita ha fatto davvero di tutto. E in tutto era eccessivo, ma sempre in modo buffo. Come se le sue gigantesche dimensioni, e le sue immense passioni, attirassero verso di lui le avventure e i personaggi più curiosi».

Faccia qualche esempio.
«È stato campione di nuoto e partecipò a due Olimpiadi, per dirne una. Poi attore autodidatta, musicista, compositore... La passione per il volo lo spinse perfino a prendere il brevetto di aereo e di elicottero e attraversare l'oceano».

Addirittura?
«Non solo. Perché, invece, quella per il mare lo portò a progettare un rimorchiatore, una vera e propria casa galleggiante su cui trascorreva le vacanze con la sua famiglia.

Volendo aggiungere dell'altro, posso dirvi che visse e lavorò in America Latina, entrò in contatto con gli sciamani dell'Amazzonia, fece i lavori più disparati, studiò Chimica e Giurisprudenza e alla fine, per un solo esame, non conseguì la laurea».

Con lui non rischiava certamente di annoiarsi.
«Mai. Ricordo, da bambina, le piccole magie che era capace di inventare per farmi distrarre quando dovevo farmi una puntura o prendere una medicina».

Racconti.
«Faceva comparire una moneta dietro il mio orecchio, una volta perfino un pulcino. La cosa più incredibile era quando si infilava una sigaretta accesa nella bocca, e poi l'apriva con la cicca ancora incandescente».

Un papà gigantesco da tutti i punti di vista.
«Le sue dimensioni erano accoglienti e protettive. Si divertiva a farmi le pernacchie sulla pancia, e poi quelle lunghe dormite a pelle di leone su di lui, anni meravigliosi... Faceva delle smorfie così strane per farmi ridere che ancora mi tornano in mente. Come il suo profumo d'altronde».

Ne usava uno in particolare?
«Inconfondibile, Eau d'Orange Verte di Hermès. Ho continuato a sentirlo anche dopo che se ne è andato».

Da Napoli in Sud America passando per Roma tra mille mestieri e altrettante avventure. Ma il cinema quando è arrivato?
«In realtà papà non voleva fare l'attore. Accadde tutto assai per caso. Era il 1967 e Giuseppe Colizzi, amico regista di mia madre, per altro figlia di un grande produttore, cercava interpreti per il suo film Dio perdona... io no».

Così pensò di ingaggiare suo padre?
«Aveva bisogno di un omone, prestante, e che avesse dimestichezza con l'acqua, per salvare il personaggio che poi venne affidato a Terence Hill».

Eccoci allo storico incontro.
«Sì, fu in quella occasione che si videro per la prima volta. Anche il ruolo di Terence fu una coincidenza: l'attore che doveva interpretarlo ebbe un incidente la sera prima del ciak, e lui gli subentrò».

Così si ritrovarono in scena.
«Nel caso di papà fu una vera e propria manna. Aveva bisogno di soldi, c'era già una famiglia da mantenere e non esitò un istante ad accettare la proposta».

E però con quel film è nata una delle coppie più celebri della storia del cinema.
«Anche una profonda amicizia, aggiungo, che li ha uniti fino all'ultimo. Tra loro non c'era invidia, non c'era gelosia. A differenza mia - diceva papà - Terence ha studiato per recitare. Lui sì che è un attore, io invece lo faccio. Erano strepitosi. Ricordo le risate quando, prima di andare in scena, gli chiedeva: Bud, come sto con il cappello così?. E papà: Ma stai come te pare. Erano agli antipodi».

Eppure riuscivano ad andare d'accordo.
«Due gentiluomini. Educazione, garbo e rispetto uno per l'altro. Così - raccontava mio padre - non abbiamo mai litigato. Neanche una volta». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA