Caruso, il tenore più grande tornò
nella sua Napoli per morire

Caruso, il tenore più grande tornò nella sua Napoli per morire
di ​Pietro Gargano
Domenica 19 Marzo 2017, 10:16 - Ultimo agg. 18:02
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Il più bravo tenore del mondo cominciò a morire il 4 dicembre 1920 sul palcoscenico del Metropolitan di New York, il teatro che gli aveva dato la gloria. Appena un fitta al fianco, Enrico Caruso non se ne preoccupò, pensò dipendesse dallo sforzo per abbattere le colonne di cartone nell'opera «Sansone e Dalila». Al mattino dopo la pena crebbe, a mozzare il fiato. Il medico del Met minimizzò e gli diede un unguento. Quattro giorni dopo, Caruso tornò in scena nei «Pagliacci».

Resse solo nella prima scena, nel finale di un'aria avvertì un pugnalata al costato. Talento ed esperienza gli permisero di trasformare il tormento in singhiozzi. Calato il sipario del primo atto, Caruso crollò. Urlava e piangeva. In camerino gli praticò impacchi caldi e freddi la giovane moglie americana, Dorothy. Riprese soffrendo, alla fine gli applausi non finivano. Qualche progresso lo indusse a cantare l'11 dicembre, all'Academy of Music di Brooklyn, l'«Elisir d'amore» che gli era stato fatale vent'anni prima al San Carlo della sua Napoli, quando dopo le critiche giurò che sarebbe tornato solo per mangiare vermicelli. Meno di un'ora alla recita quando avvertì caldo dolciastro in bocca. Era sangue, il lavabo si arrossò. Gli impacchi di ghiaccio non fermarono l'emorragia ma il tenore volle esibirsi ugualmente. All'attacco di «Quant'è bella» un fazzoletto mascherò uno sbocco vermiglio, però presto si inzuppò e il sangue sgocciolò sulla camicia e sulle assi di legno. Il pubblico ondeggiò. I coristi in una pausa lo portarono dietro alle quinte, altri lavaggi. Rientrò, i coristi e il soprano Evelyn Scotney gli porgevano fazzoletti in serie. L'orchestra si fermò due volte. Pausa, applausi frenetici. Non era in grado di rientrare, il portavoce mentì: «Si è rotto una vaso sanguigno sulla lingua del signor Caruso. Egli vuole continuare, se non avete paura del sangue». Rispose un clamoroso no, tutti in piedi. Fermata l'emorragia, il tenore aprì un telegramma infame: «Sentite condoglianze». Allora meditò la riscossa, la prova immediata di intatta bravura. Due giorni dopo gli fu permesso di riapparire nella «Forza del destino», dietro promessa di non fumare e di curarsi. Una maledetta incoscienza, ma il napoletano superò l'esame. Scrisse a Donna Emilia: «Il morto è resuscitato con più salute di prima». Però aggiunse una profezia fosca: «Quest'estate non mancherò di essere a Napoli, e quando sarò tra voi ho paura che non vi lascerò più». Comunque cercò la rivincita nel «Sansone e Dalila», il 16 dicembre, e trionfò. Ma non stava bene, il marcio nascosto nel corpo cresceva. Il 22 rinunciò a una replica dell'«Elisir», alla vigilia di Natale disse sì alla ripresa dell'«Ebrea».

Era la recita numero 607 di Caruso al Metropolitan, l'ultima. Gli fasciarono il busto come a una mummia. Non bastò. Riuscì a reggere da stoico, grazie all'aiuto del soprano Florence Easton che lo abbracciò di continuo tenendo le mani ferme sulle ultime due costole, affinché il tenore potesse usare il diaframma e i polmoni. Al termine piangeva, la folla pensò che fosse per l'emozione. Il giorno dopo fece come se fosse Natale a Napoli, portò doni in teatro, giocò con la figlioletta Gloria, apprezzò gli struffoli portati dai paesani. Si concesse un bagno bollente e fu straziante. Giunsero medici famosi, dissero ch'era pleurite, si temeva la polmonite. Il chirurgo Erdmann gli estrasse dalla pleura quattro litri di pus e altro marciume. Con l'anno nuovo arrivò una lieve ripresa, durò fino a febbraio. Il 9 fu tolta altra materia infetta, il 12 gli furono segati dodici centimetri di una costola, per poter intervenire sul polmone. In quel poderoso mantice s'era aperto un buco insanabile. Il 15 il cuore vacillò. Arrivò di corsa il figlio Mimmi, arrivarono due preti con l'olio santo. Caruso sussurrò «È presto, non sto morendo». Venne a salutarlo la recluta Beniamino Gigli. Il primo marzo fu tolto un ascesso al polmone sinistro. Seguirono altri due piccoli interventi. Il passaggio dal letto alla sedia a rotelle fu un successo. Il 26 aprile il tenore andò con Dorothy al Metropolitan. Per mostrare quant'era dimagrito, s'infilava un dito nel colletto. Fu accelerata la partenza per Napoli, o sole suo miracoloso. Il 28 maggio 25 agenti lo scortarono al porto, con la moglie e la figlioletta, fra due ali di ammiratori. Il tenore sfoggiò un acuto per i giornalisti. I fazzoletti che salutarono il piroscafo «Presidente Wilson» erano umidi di lacrime. A bordo il campione aveva portato 72 valigie e 46 bauli, per ricordarsi ch'era partito senza niente. All'approdo a Napoli, il 9 giugno 1921, pure il popolo dei vicoli venne ad accogliere il fratello emigrato. I Caruso presero alloggio all'Hotel Caruso, sempre gremito di vecchi amici ed estimatori, solo per vederlo, nessuno gli chiese niente. Sulla faccia del tenore tornò colore, però quell'assedio di affetto lo stancava. Dorothy impose il trasferimento nella più quieta Sorrento. E lì, nell'albergo Vittoria, arrivò l'impresario Gatti-Casazza a comunicare che il nome di Caruso campeggiava nel cartellone di autunno del Metropolitan. Il 15 luglio il tenore festeggiò l'onomastico accennando a qualche aria a bassa voce. Accolse l'inviato di un giornale americano con la sigaretta tra le dita. Gli disse «Non sono malato», eppure gli confidò di aver sognato la propria tomba. A lusinga fa salute, dice un proverbio. Non fu così, anzi l'illusione fece male. Il napoletano prese bagni di mare e di sole. Andò in gita a Capri e in pellegrinaggio al santuario di Pompei, dove accese un cero più alto di lui. Dorothy cominciò a odiare i sodali del marito, che lo aiutavano a stancarsi. Alle 11 del 23 luglio di quel 1921 si presentò in albergo Umberto Sequino da Scafati e chiese un'audizione e si lanciò in una romanza. Fu interrotto: «Ascolta si fa così». Dimostrazione perfetta, il napoletano gioì come un bambino. Dichiarò al Mattino «Sto molto meglio, in America stampano menzogne per danneggiarmi». E tuttavia, nelle lettere per amici lontani, la speranza si mescolava alla pena. «Sono in mano di speculatori che mi abbreviano la vita», «Ho un grande debolezza», l'eredità di otto operazioni e di una setticemia. Non ebbe tempo di godere perché Gloria muoveva i primi passi, la febbriciattola diventò di fuoco. C'era bisogno di specialisti, Dorothy scelse i fratelli romani Giuseppe e Raffaele Bastianelli perché avevano sposato due americane e parlavano l'inglese. Pochi minuti prima che i luminari arrivassero, Caruso posò per il fotografo Carbone, poi gloria del Mattino, seduto alla rovescia su una sedia, come se volesse guardare all'indietro. I Bastianelli lo convocarono a Roma per una radioscopia. Con Dorothy furono franchi, dissero che, purché non fosse già troppo tardi, forse solo il ritorno al bisturi poteva salvarlo.

Fu fatto il piano del viaggio, ambulanza fino a Napoli e da lì treno speciale per Roma. Caruso preferì il traghetto e a bordo tentò di scherzare con chi l'aveva riconosciuto. La febbre salì a quaranta gradi, bisognava fermarsi al Vesuvio. Pomeriggio del 31 luglio, Napoli borghese in villeggiatura, un medico che iniettasse morfina per blandire il dolore fu trovato solamente dopo quattro ore e non aveva con sé il farmaco adatto. Finalmente fu scovato il professore Giacomo Cicconardi, che dopo la vista chiese un consulto urgente. Il dolore azzannava ma il tenore restò lucido. Al fratello Giovanni disse che avrebbe aperto tre conti da un milione di lire, per lui e per i propri figli Fofò e Mimmi. La notte fu un tormento, aggravato dalla sete. «Stavolta sarà difficile scamparla» disse. Alle 17 del primo agosto la stanza al secondo pianto ospitò un convegno dei più celebrati medici napoletani, Gaetano Sorge, Raffaele Chiarolanza, Gennaro Sodo e il pio Giuseppe Moscati. Responso unanime: ascesso subfrenico fra diaframma e reni, fenomeni peristostinici settici, uricemia, lesioni del miocardio, del pericardio e dei reni, cuore e polso debolissimi. Una possibilità su mille di salvarlo e unicamente con un intervento chirurgico. Come palliativi, punture di olio canforato e inalazioni di ossigeno. Laggiù in America Mimmi sognò il padre in un letto di fiori che gli diceva «Figlio mio, fai il bravo». Erano stati affiancati due lettini, Caruso passava dall'uno all'altra a braccia per il tempo necessario a cambiare le lenzuola. Sudava freddo, tra smanie e torpori. Al capezzale restò solo Giuseppe Moscati, futuro santo miracoloso. Gli prese le mani e disse: «Hai consultato molti medici, però hai dimenticato quello più importante, Gesù Cristo». Pregarono in silenzio, salì un lieve rantolo. Il morente non ebbe modo di salutare il sole levante. Alle 7 tornarono gli altri professori e scossero la testa. In città gli strilloni del Mattino gridavano il titolo «Enrico Caruso è agonizzante». Incerte le ultime parole. «Mi manca l'aria» o «Calore... dolore» o «Do-ro, Do, Do.Ro» oppure «Lasciatemi morire». Il più bravo tenore del mondò spirò alle 9 e 7 minuti di martedì 2 agosto 1921 proprio di fronte allo stabilimento balneare in cui aveva cantato da ragazzo posteggiatore. Avrebbe compiuto quarantott'anni diciannove giorni dopo.

Lo scultore Filippo Cifariello prese la maschera del volto e il calco delle mani. I valletti lo vestirono di abiti raffinati. La bocca preziosa fu chiusa da una fascia bianca, dal mento alla testa. Il Mattino uscì in edizione straordinaria, «La Voce divina si è spenta». I medici, intervistati, accusarono i colleghi americani di non avere ben curato la pleurite sierosa, Chiarolanza li definì «macellai». Nella camera ardente nel salone d'inverno del Vesuvio fu portato un piccolo altare. Caruso se n'era andato sorridendo, gli imbalsamatori lo intristirono. Fu una sfilata di pianto. Davanti all'albergo carro funebre e carrozze bordate di nero dovettero sostare perché per tutto il giorno i preti della basilica di San Francesco di Paola dissero no ai funerali, forse perché le prime nozze con Dorothy erano di rito protestante. Il sindaco Alberto Geremicca fece pressioni sul prefetto che si appellò al re, così il veto dei religiosi fu rimosso. Dei funerali leggerete nell'antica pagina accanto. Qui poche ultime righe per aggiungere che le speculazioni cominciarono subito. In America uscì un doppio disco con le voci e i suoni delle esequie. Giacomo Puccini definì Caruso «un buon ragazzo dolce e sincero», tutto qui. A New York il portiere del Metropolitan sbarrò gli occhi nel leggere la cartolina appena arrivata: «Mi sento benone. Spero di essere ristabilito tra brevissimo tempo. Caruso».
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