Ferlaino, l’Ingegnere silenzioso
«Un capolavoro di sofferenza»

Ferlaino, l’Ingegnere silenzioso «Un capolavoro di sofferenza»
di Roberto Ventre
Mercoledì 10 Maggio 2017, 08:57
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Ferlaino costruì quel Napoli dei sogni, Bianchi lo spinse al primo scudetto della storia. Il loro marchio sul tricolore del 10 maggio 1987 resterà indelebile come quello di Maradona e di tutti gli altri splendidi protagonisti di quella cavalcata indimenticabile.
Se Diego arrivò a Napoli il merito fu di Ferlaino, decisiva fu la grande intuizione dell’ingegnere di poter mettere le mani sul giocatore più forte al mondo che era in rotta con il Barcellona. Il primo passo verso il tricolore fu quello, l’acquisto di Diego il 30 giugno 1984 con l’allora direttore generale Antonio Juliano abile tessitore della trattativa in Spagna. Il presidente e il vecchio capitano azzurro la spuntarono dopo 50 giorni di trattative e portarono a Napoli il numero uno al mondo, l’ultimo giorno utile di mercato per 13 miliardi di lire. Ferlaino con una genialità tutta napoletana sostituì di notte negli uffici della Lega a Milano la busta vuota depositata in precedenza con quella buona contenente la firma del contratto di Diego: quel giorno di fatto partì la sfida alla Juventus, alla Roma e alle milanesi e l’assalto allo scudetto. Il viaggio durò tre anni. La prima stagione con Marchesi in panchina si chiuse all’ottavo posto e gli azzurri riuscirono a riprendersi dopo il patto dell’hotel Raito a Vietri sul Mare vincendo 4-3 sull’Udinese. La svolta l’anno successivo quando Ferlaino decise di puntare su Ottavio Bianchi, tutto casa e lavoro, carattere schivo, chiuso e perfetto per tenere sotto controllo l’entusiasmo esplosivo di Napoli. 
Il tecnico bresciano arrivato dalla piccola realtà di Como che però conosceva benissimo la realtà partenopea per i cinque anni vissuti da calciatore, lui che era un centrocampista di combattimento introdusse la cultura del lavoro e del sacrifico. Pochi sorrisi, testa bassa e pedalare. Per tutti in quegli anni era il “Musone”, l’”Orso” ma proprio il suo carattere si rivelò vincente nel cocktail magico che si andò a creare con l’ambiente. Chiuse il suo primo campionato al terzo posto e gli azzurri tornarono in Coppa Uefa e arrivarono le prime vittorie indimenticabili, una su tutte, neanche a dirlo, quella contro la Juventus di Trapattoni fino a quella domenica imbattuta al San Paolo: quella parabola magica di Maradona su punizione che beffò Tacconi è poesia, una pagina di storia.
Rapporto saldo forte quello tra il presidente Ferlaino e Bianchi che insieme gettarono le basi per un Napoli ancora più forte, pezzo dopo pezzo, pedina dopo pedina. E così a Diego vennero affiancati via via dopo Bagni, Giordano, Carnevale, De Napoli, tutti i grandi protagonisti dello scudetto. I tempi erano maturi: l’ingegnere che era presidente azzurro dal 1969 voleva vincere, nella bacheca aveva solo la Coppa Italia del 1976, quella vinta in finale per 4-0 sul Verona allo stadio Olimpico, e una coppa di Lega Italo Inglese. Dopo gli acquisti di Savoldi, Beppe-gol, e di Krol, l’olandese volante che trascinò nel 1980-‘81 la squadra a un passo dallo scudetto vinto in volata dalla Juve sulla Roma e gli azzurri, Ferlaino con l’acquisto di Maradona aveva in mente una sola cosa: cucire sulle maglie azzurre per la prima volta lo scudetto.
 
 


Il terzo anno di Diego era quello giusto, ormai c’erano tutti i presupposti: la squadra si era rinforzata ed aveva ormai anche l’esperienza giusta per lottare per il vertice. Maradona era carico a mille per il campionato del mondo vinto in Messico con l’Argentina e tornò con la voglia matta di regalare al Napoli il primo scudetto della storia per poter vivere un’emozione pari a quella della Coppa del Mondo. E quello fu l’anno del capolavoro di Ferlaino e di Bianchi: il presidente si avvalse della competenza dell’esperto direttore generale Italo Allodi e del giovane direttore sportivo Marino per creare una squadra perfetta, costruita in estate e puntellata poi più avanti con il colpo di mercato decisivo, l’acquisto a centrocampo di Romano che esordì a Roma nella vittoria firmata da Maradona sull’assist di Giordano, il primo squillo scudetto del 26 ottobre 1986.

L’ingegnere consegnò all’allenatore bresciano un bolide da Formula uno e Bianchi ebbe il grande merito di fare correre il Napoli a trecento all’ora senza farlo sbandare nelle curve. Ottavio fu bravissimo a costruire un meccanismo perfetto, una squadra di stelle e di operai, quella di Bruscolotti che l’anno prima aveva ceduto la fascia di capitano a Maradona strappandogli la promessa di regalargli lo scudetto. Diego fu di parola e già a Brescia nella prima partita di campionato segnò un gol dei suoi, uno di quelli con i quali aveva trascinato l’Argentina al titolo mondiale. Ma il merito straordinario lo ebbe Bianchi che trasformò quella squadra in un orologio svizzero che non sbagliò un colpo. La sua intuizione fu quella di schierare insieme nel momento decisivo della stagione Maradona, Giordano e Carnevale senza far perdere equilibrio alla squadra. E firmò così il suo capolavoro proprio a Torino contro la Juve, inserendo Carnevale al posto di Sola con il Napoli sotto di un gol (rete di Laudrup): gli azzurri si scatenarono e ribaltarono il risultato nel secondo tempo. Il 3-1 del 9 novembre 1986 non solo fu la vittoria attesa a Torino da una vita ma soprattutto il successo che lanciò il Napoli verso il suo primo scudetto della storia, perché il Napoli conquistò la vetta e non la mollò fino alla fine.

Bianchi diventò decisivo non solo per le mosse vincenti di un campionato esaltante ma anche per la sua capacità di gestire l’entusiasmo che dilagava in città per non far perdere equilibrio alla squadra che partita dopo partita costruiva un sogno atteso da sessant’anni. E così le poche sconfitte furono assorbite senza contraccolpi, la prima a Firenze arrivò dell’ultima giornata del girone di andata (3-1), quella dell’aggancio in vetta da parte dell’Inter. Il tecnico bresciano fu bravo a gestire quella sconfitta, come per tutta la stagione i momenti esaltanti di una stagione irripetibile perché quella squadra riuscì a vincere anche la coppa Italia vincendo tutte le partite (13 su tredici, fino alla doppia finale contro l’Atalanta: 3-0 a Napoli e 1-0 a Bergamo).
Ferlaino riuscì a godersi il suo capolavoro, partita dopo partita, impresa dopo impresa, l’anno più bello dei suoi 33 in azzurro, insieme a quello del secondo scudetto, anche se per lui l’emozione più bella resta la vittoria della Coppa Uefa nel 1989 a Stoccarda, per l’invasione dei tifosi napoletani in Germania. Al presidente non piaceva troppo apparire, quelle gioie le viveva soprattutto con se stesso. Da questo punto di vista era molto simile a Bianchi. Quel 10 maggio però si lasciò andare, fu portato in trionfo e festeggiò emozionatissimo in campo con i giocatori. Esultanza più contenuta invece del tecnico che mantenne il suo modo di essere fino al giorno del trionfo. Quello era il suo stile che portò allo scudetto.
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