Roberto Benigni, la vita è bella: i 70 anni dell'eterno Pinocchio

Roberto Benigni, la vita è bella: i 70 anni dell'eterno Pinocchio
di Titta Fiore
Giovedì 27 Ottobre 2022, 07:00 - Ultimo agg. 28 Ottobre, 18:59
5 Minuti di Lettura

«Meglio il puzzo di una mamma, che il profumo di nessuno!»
(«Berlinguer ti voglio bene»)
«Il primo atto di misericordia di Gesù? Guarire la suocera di Pietro»
(Presentazione del volume di Bergoglio «Il nome di Dio è misericordia»)

Da Cioni Mario al libro di Papa Francesco: quante volte Roberto Benigni è stato capace di stupire, di divertire, di commuovere, nella sua straordinaria carriera. Quante invenzioni ci ha regalato, quante vite ha vissuto vestendo la sua arte di piroette leggere e di dotte incursioni nei temi più alti. Oggi l'attore e regista, eterno folletto dello spettacolo italiano, compie settanta improbabili anni. Li festeggerà con la discrezione che l'accompagna da sempre quando è lontano dalle luci di set e palcoscenici, con la moglie Nicoletta Braschi e gli amici più cari. Per il pubblico che lo segue con immutato affetto dai tempi delle surreali gag nell'«Altra domenica» di Renzo Arbore, invece, si prepara a debuttare sulla piattaforma streaming di Paramount+ con uno show sul «Cantico delle creature», accompagnato dall'esegesi di momenti salienti della vita e delle opere di San Francesco. Nel settore ha precedenti luminosi: la sua lettura dei «Dieci comandamenti» su Raiuno fu seguita da dieci milioni di spettatori e certo non deluderà. 

Innovatore irrispettoso delle regole tradizionali, esuberante e generoso nel darsi, appassionato performer di cinema, teatro e televisione, Benigni è uno specialista della leggerezza profonda, un cultore della gioiosa malinconia. Un ossimoro vivente di superlativa sapienza scenica allenata in anni di gavetta. Prima gli spettacoli in piazza nella sua Toscana, poi l'incontro con Giuseppe Bertolucci, il primo a credere in lui: per quello strampalato ragazzo magro come un chiodo e bravo a intrecciare parole scrive il monologo di Cioni Mario, poi dirige il film che lo lancia, «Berlinguer ti voglio bene». Con «L'altra domenica» di Arbore arriva il successo, tant'è che per festeggiarlo, questa settimana, Rai Movie ha scelto di ritrasmettere proprio le sue strampalate recensioni da inattendibile critico cinematografico in quella iconica trasmissione, ormai un piccolo classico. Da allora ha fatto di tutto: l'attore, il regista, lo sceneggiatore, il mattatore televisivo, il divulgatore, e sempre ai massimi livelli. Con entusiasmo innocente si è permesso le più spinose arditezze, le esagerazioni più divertenti. Benigni è il guitto irriverente che prende in braccio Berlinguer, che in televisione fruga sotto le gonne di Raffaella Carrà e palpeggia sfrontato Pippo Baudo, lo stand up comedian che dal palco di Sanremo chiama Wojtylaccio il Papa facendosi allontanare dal piccolo schermo. È l'attore a tutto tondo che si mette al servizio di Ferreri per «Chiedo asilo», di Citti per «Il minestrone», di Bernardo Bertolucci per «La luna», dell'amico Arbore e del «Pap'occhio», sequestrato per vilipendio alla religione cattolica. Per non parlare dell'ultimo Fellini che lo volle accanto a Villaggio in «La voce della luna» e delle collaborazioni con Jim Jarmush, autore della trilogia «Daunbailò», «Taxisti di notte» e «Coffee and cigarettes», con Blake Edwards per «Il figlio della Pantera Rosa» e con Woody Allen che lo mise letteralmente in mutande in «To Rome with Love».

Il debutto nella regia con «Tu mi turbi» precede i successi al botteghino dell'esilarante «Non ci resta che piangere», firmato e interpretato a quattro mani con Massimo Troisi, e poi de «Il piccolo diavolo», «Johnny Stecchino» e «Il mostro». Ma è «La vita è bella» a dargli la consacrazione planetaria: dal Gran Premio della Giuria a Cannes ai tre Oscar vinti a Hollywood, la marcia trionfale di quel film poetico e struggente ambientato nel lager di Auschwitz fa di lui una superstar richiesta e amata ovunque. E la sua corsa a ritirare la statuetta, saltando sulle spalliere delle poltrone di velluto rosso fino al palco dove Sophia Loren lo aveva chiamato con il memorabile «Robertooo!», resta di culto negli annali dell'Academy e nella memoria di tutti gli appassionati della settima arte.

Video

Negli anni ha accumulato premi e riconoscimenti, comprese dieci lauree honoris causa, e innumerevoli onorificenze.

Da sulfureo Benignaccio si è via via trasformato in padre nobile e dopo gli alterni risultati avuti al cinema con «Pinocchio» e «La tigre e la neve» si è dedicato alla grande divulgazione, interpretando e commentando la Divina Commedia, i principi fondamentali della nostra Costituzione, «La più bella del mondo» e, come si è detto, «I Dieci comandamenti». Ricevendo il Leone d'oro alla carriera alla Mostra di Venezia, l'anno scorso, ha ringraziato, come già fece all'Oscar, «la povertà aristocratica» delle sue origini contadine. E ha condiviso la statuetta prestigiosa con la moglie amatissima: «Abbiamo fatto tutto insieme, da quarant'anni conosco una sola maniera di misurare il tempo, con te e senza di te». Per una singolare coincidenza, è stato ancora «Pinocchio», questa volta con la regia di Garrone, a riportarlo sul set nei panni di Geppetto. «Ora mi manca solo di fare la Fata Turchina», ha detto ridendo all'uscita del film. Beh, c'è ancora tempo. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA