Bob Dylan compie 80 anni: uno nessuno e centomila

Bob Dylan compie 80 anni: uno nessuno e centomila
di Federico Vacalebre
Domenica 23 Maggio 2021, 09:00 - Ultimo agg. 24 Maggio, 15:23
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«Qui giace Bob Dylan/ assassinato/ alle spalle/ da carne tremante/ che dopo essere stata respinta da Lazzaro/ gli balzò addosso/ per solitudine/ ma scoprì sbalordita/ che era già diventato un tramvai e/ questa fu esattamente la fine/ di Bob Dylan».

L'uomo che compie 80 anni domani, l'artista più importante del Novecento, l'autore di un supertriplete inimitabile - Nobel, Oscar, Pulitzer, il resto non lo diciamo nemmeno, compresi 10 Grammy, il Polar Music Prize, il Golden Globe, la National Medal of Arts, la Presidential Medal of Freedom e la Legione d'Onore - il suo necrologio se l'è già scritto da tempo, nel suo primo e unico romanzo, Tarantula, scritto a metà anni 60 ma pubblicato nel 1971.

L'uomo che compie 80 anni domani, sempre in quel periodo, era il 1966 e lui era nel bel mezzo di un tour, a Tucson, Arizona, scrisse pensando al primogenito appena nato, Jesse, ma anche alla struttura del Libro dei numeri (6.24-26), sacro ad ebrei come ai cristiani, «Forever young»: «Che le tue mani possano essere sempre occupate/ Che il tuo piede possa essere sempre veloce/ Che tu possa avere delle solide basi/ quando i venti del cambiamento soffiano/ Che il tuo cuore possa sempre essere gioioso/ Che la tua canzone possa sempre essere cantata/ Che tu possa restare per sempre giovane».

Ma l'uomo che compie 80 anni domani sapeva già che giovinezza e vecchiaia sono termini relativi. Nel 1964 l'aveva cantato chiaramente nel ritornello di «My back pages»: «Ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso». 

L'uomo che compie 80 anni domani nel 2020, regalandoci un album capolavoro, ristabilì in «False prophet» il suo personaggio: «Bene, sono nemico del tradimento, nemico del conflitto, nemico della vita sprecata senza senso.

Non sono un falso profeta, so solo quello che so, vado dove solo le persone solitarie possono andare. Sono il primo fra i pari, secondo a nessuno, l'ultimo dei migliori. Puoi seppellire il resto».

Per sempre giovane, da sempre vecchio, ma sopratutto primo dei migliori, Robert Allen Zimmerman da Duluth, Minnesota, è stato visto giovedì scorso a Santa Monica, dove non appariva in pubblico da un decennio. Occhiali da sole, t-shirt, stivaletti, le foto zoomano su un «anello matrimoniale», cosa sorprendente, visto che risulterebbe singolo dopo il divorzio da Carolyn Dennis nel 1992. Girava in un truck Toyota, riemerso dalla quarantena spesa a Malibu, dove si era rifugiato dal marzo dell'anno scorso, dopo aver cancellato la tranche giapponese del suo «Neverending tour».

Uno, nessuno e centomila, l'uomo che voleva essere Elvis Presley ma incontrò Woody Guthrie, che sconvolse il folk rendendolo militante, che risconvolse il folk rendendolo elettrico, che sconvolse il rock mettendo l'arte nel jukebox (copyright by Allen Ginsberg), che nacque ebreo si sentì ateo si convertì in cristiano evangelico e si rifece ebreo, che ha venduto i diritti d'autore delle sue canzoni per 300 milioni di dollari dopo averne già prestata una alla pubblicità di wonderbra e perizoma griffati Victoria's Secret per non dire di automobili e altre categorie commerciali, che produce un whisky magnifico e costoso, che dipinge quadri che meriterebbero di essere presi sul serio e cesella cancelli di ferro come fossero «Gates of Eden», un tempo spiegò, con il solito tono da narratore delle riserve, illuminato dalla Bibbia come dal chiacchiericcio più profano che ci sia: «Il mio passato è così complicato che non ci crederesti». Ed aveva ragione, basti ricordare quando i Weathermen - nome per altro dovuto a un suo verso - volevano capire da che parte avrebbe soffiato il vento della rivoluzione frugando nella sua immondizia. O che fu un allora suo mentore, Pete Seeger, ad interrompere, tranciando il cavo elettrico con un'ascia, la sua esibizione al Festival folk di Newport del 1965, scandalizzato dal distacco dal modello del menestrello acustico.

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Un tramvai forse sua Bobbità non lo è stato mai, ma tante altre cose sì. Proprio in «Rough and rowdy ways», l'album-capolavoro, anzi miracolo, dell'anno scorso, lanciato con un singolo (?) di 17 minuti sull'assassinio di Kennedy, «Murder most foul», suo debutto in cima a una classifica di «Billboard», si è autodefinito saccheggiando Walt Whitman in «I contain multitudes»: «Pantaloni rosa alla pescatora, blue jeans rossi/ tutte le damigelle e tutte le vecchie regine/ tutte le vecchie regine delle mie vite passate./ Io vado in giro con quattro pistole e due grossi coltelli/ Io sono un uomo pieno di contraddizioni, un uomo dai mille umori/ Io contengo moltitudini».

Moltitudini studiate da esegeti più numerosi e tignosi di quelli che mai si siano applicati a Dante e Omero, a Shakespeare e Leopardi, a Mozart e Beethoven, Einstein e Picasso. L'uomo più studiato, più cantato, più amato-odiato (la risposta, purtroppo, soffia ancora nel vento e nessuno riesce ad ascoltarla) del Novecento. Forse, addirittura, l'uomo Novecento, che ha racchiuso in sé l'anelito al mondo nuovo e all'uomo nuovo, la convinzione che «The times they are a-changin'» e la disillusione perché i tempi non sono poi cambiati (almeno non nella direzione che speravamo), una versificazione fluviale fatta di fulmini e lampi, che non teme l'arte della citazione sino ai limiti del plagio. Il rinnovatore-conservatore, il rivoluzionario che ama i tempi che furono.

Come una pietra che rotola ha dilatato i confini e i tempi della canzone, quando le e ci impose di andare oltre il motivetto da tre minuti: «Like a rolling stone» durava oltre sei minuti ed eravamo ancora nel 1965, dieci anni dopo «Hurricane» arrivò a 8 minuti e mezzo, di «Murder most foul» abbiamo già detto. Riletto, tradito e tradotto in ogni lingua e in ogni salsa si è fermato al cospetto di una sola cover capace di essere migliore del suo originale, «All along the wachtower» infiammata dalla chitarra del supremo Jimi Hendrix. Come una pietra che rotola ha dilatato i confini della letteratura, scrivendola con le canzoni mai rifatte una volta eguale all'altra, con il Nobel non ritirato, persino col proprio corpo, con la storta postura sul palco degli ultimi anni, ormai piegato dai reumatismi che lo hanno spostato dietro le tastiere, facendogli rinunciare all'amata chitarra.

Nelle nostre moltitudini - pochissima cosa rispetto alla sua overdose di personalità - molte sono state rubate alle decine di volte che lo abbiamo visto in concerto in giro, per il mondo, dylaniani dylaniati tra dylaniani dylaniati, sempre e comunque, e, naturalmente, dai suoi dischi, soprattutto «Highway 61 revisited» (65), «Blonde on blonde» (66), «Blood on the tracks» (75), «Desire» (76), «Infidels» (83), «Time out of mind» (97), «Love and theft» (2001) e «Rough and rowdy ways» (2020), ma l'elenco sarebbe ben più lungo.

L'uomo che compie domani 80 anni è (anche) uno dei due-tre motivi (gli altri sono i Velvet Underground, i Clash e una biondina con il sedere a mandolino) per cui chi scrive fa questo strano mestiere di scrivere di musica, che sarebbe un po' come danzare l'architettura. 

Auguri Bobbissimo e poco importa che non resterai per sempre giovane, forse non lo sei mai stato. Piuttosto, possa la tua canzone essere cantata per sempre. Noi saremo nel coro. 

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