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Intelligenza artificiale, un gemello digitale per aiutare i malati di Alzheimer a ricordare chi sono

Con l’AI non solo si può far rivivere in maniera virtuale chi non c’è più. All’Università Cattolica si studia la creazione di un avatar per curarsi meglio

Mauro Evangelistidi Mauro Evangelisti
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 15 Marzo 2023, 12:43 - Ultimo agg. : 20 Marzo, 17:16
4 Minuti di Lettura

L'intelligenza artificiale aiuterà i malati di Alzheimer a non dimenticare.

Ascolta: L'Universo in onda: il rilevatore di onde gravitazionali farà anche crescere il Pil

A ricordare chi sono e chi amano. Un giorno, non così lontano, ci consentirà anche di lasciare un nostro avatar, che ha imparato dalle nostre azioni quotidiane a comportarsi e a reagire come noi, e che continuerà a dialogare con chi ci ha voluto bene anche dopo la nostra morte. Non è la vita eterna, forse è solo una sua simulazione. Non è l’anima come magari ci piace immaginare, è semplicemente un’impronta digitale.

NON SOLO FICTION

 Il pensiero va subito a una delle prime puntate della seconda stagione della serie Black Mirror (2013). Si intitola Torna da me. Racconta la storia di un giovane che muore in un incidente stradale, la compagna si rivolge a un servizio online che, grazie alle sue tracce lasciate sui social media e sui servizi di messaggistica, consente di creare una copia virtuale. Da allora la fiction ha riproposto, con alcune varianti, questo tema, ma anche la realtà se ne sta occupando concretamente. Quattro anni fa era stata ideata una app a cui affidare la nostra copia digitale dopo la morte. Di recente, in Corea del Sud (ma ci sono altri servizi analoghi) si è parlato molto di Re;memory, piattaforma sviluppata da una società che si occupa di intelligenza artificiale, e che consente di creare un clone virtuale che ha il nostro aspetto, parla e interagisce come noi, con il quale i nostri cari potranno continuare a relazionarsi. Ma ciò che stanno realizzando all’Humane Technology Lab (HTLAB) dell’Università Cattolica, guidato dal professor Giuseppe Riva, che studia il rapporto tra esperienza umana e tecnologia, punta a usare l’intelligenza artificiale in un modo differente, guarda più alle nostre vite che a ciò che resterà di noi dopo la morte. Premessa: chatbot è lo strumento di intelligenza artificiale diventato estremamente popolare nelle ultime settimane per la sua capacità di interagire, con una certa autonomia e precisione, con l’essere umano (in modo differente, per capirci, rispetto ai Bot dei servizi clienti di tante aziende che invece sono non di rado inutili, se non frustranti). Spiega il professor Riva: «Nel nostro laboratorio stiamo analizzando i potenziali di chatbot, come strumento di tecnologia positiva. Oggi si parla di intelligenza artificiale in modo negativo. Si dice: riduce la creatività, in qualche modo rallenta le capacità cognitive. In realtà sappiamo che questi strumenti possono essere molto utili per aiutare le persone con problemi di memoria. Pensiamo ad anziani con demenza o Alzheimer. Una delle caratteristiche che entra in crisi è proprio la capacità di ricordare tutto. Vogliamo capire se l’utilizzo degli “strumenti generativi”, che riflettono le caratteristiche delle persone che stanno attorno a noi, possono risvegliare la memoria».

GLI OBIETTIVI

 C’è allora l’obiettivo ambizioso di aiutare a ricordare ciò che chi purtroppo ha all’Alzheimer, per fare un esempio, sta dimenticando. «Veda – spiega Riva – di solito questo tipo di approccio utilizza fotografie. Ma sappiamo che voce e modalità di interazione vocale sono molto efficaci nell’attivare il ricordo. Vogliamo verificare in che modo una stimolazione, a partire dalle informazioni raccolte su un utente, possano essere utilizzate per non fargli perdere memoria di sé ma anche di una persona cara di cui sta perdendo memoria. Il progetto coreano vuole invece semplicemente mantenere il ricordo di una persona cara. Una volta vedevo il filmino, oggi interagisco con l’avatar della persona cara». Ma questi avatar, queste copie digitali, quanta autonomia avranno in futuro? «Al momento nessuno strumento di intelligenza artificiale è in grado di avere una coscienza propria. I sistemi funzionano così bene perché la quantità di informazioni è enorme, questo consente di costruire dei database che coprono una gamma molto ampia di informazioni sui soggetti. Quello che potrebbe capitare nel futuro è che ogni momento, ogni attimo, della nostra vita verrà registrato e questo consentirà di avere una mole di dati ancora più capillare, tale da costruire delle simulazioni molto efficaci».

L’APPROCCIO

 Ma sarà solo una imitazione? Esempio: comunico all’avatar di una persona cara deceduta che sto per avere un figlio. Avrà una reazione credibile rispetto a una notizia che non era contemplata nelle informazioni memorizzate? «Avrà la reazione più probabile, in base ai dati che ha appreso. Avremo dei gemelli digitali, delle copie molto realistiche di persone vere, che ne riproducono le caratteristiche in maniera avanzata. L’idea in futuro è costruire gemelli digitali con corpi, per potere sperimentare prima su un corpo digitale l’effetto di un farmaco. Guardi, tutto dipenderà dalla mole di dati che in futuro potremo immagazzinare». Torniamo però al progetto di continuare a dialogare con una persona deceduta grazie alla creazione di un avatar digitale. Ci sono anche dei rischi, delle incognite. «Una persona morta rappresenta il passato. Il modo migliore per superare un trauma è guardare il futuro. Se ho vissuto in maniera drammatica la perdita di una persona amata, il fatto di avere un surrogato digitale potrebbe non aiutarmi a superare questo trauma e andare avanti. Mi ancorerebbe al mio dolore e al mio passato. Ci sono molte cose che dobbiamo capire rispetto a questo futuro che ci attende, per questo nel nostro laboratorio abbiamo un approccio multi disciplinare: ci sono anche psicologi, pedagogisti, medici, filosofi».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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