Napoli dice addio a Cafasso, decano della pizza: «Inventò il ripieno provola e scarole»

Lascia lo storico locale di famiglia al suo posto il figlio Stefano: «La tradizione sarà garantita»

Ugo Cafasso
Ugo Cafasso
di Luciano Pignataro
Martedì 14 Maggio 2024, 23:30 - Ultimo agg. 15 Maggio, 07:35
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Scompaiono i protagonisti che hanno fatto la storia della pizza fino all’era dei social. E, a proposito di Facebook, basta fare un giro per capire quando fosse nel cuore dei napoletani Ugo Cafasso, scomparso due giorni fa alla soglia degli 80 anni. La sua scomparsa è un altro tratto di penna su un mondo che non tornerà più, quello in cui ognuno aveva una pizzeria di riferimento, spesso nel quartiere. Cafasso è stato un riferimento storico a Fuorigrotta, Ugo uno dei fondatori dell’Associazione delle Pizzerie Centenarie presieduta da Salvatore Grasso di Gorizia al Vomero.

La storia professionale di Ugo, e adesso del figlio Stefano, è segnata dai nonni Giovanni e Adele. Lei era una delle prime pizzaiole dell’epoca proveniente a sua volta da una famiglia di pizzaioli. Giovanni lavorava in fabbrica ma Adele lo convinse a mettersi vicino al forno. Nasce così sui primi del ‘900, la pizzeria Capasso a Porta San Gennaro. È qui che Peppino, il figlio, impara a fare le pizze, prima di lasciare il locale di famiglia per creare la sua attività a Fuorigrotta.

Il passaggio da Capasso a Cafasso pare sia stato un semplice errore di trascrizione all’anagrafe, fatto sta che Peppino diventa Giuseppe Cafasso e apre nel 1953 la pizzeria che porta questo cognome. Insomma, Ugo subentra a Peppino con quelli che ha sempre considerato i suoi cavalli di battaglia: il “calzone di scarola”; la “Doc” (pomodoro, bufala, basilico e olio a crudo) e la “Ciro” (provola, pesce spada, rucola e scaglie di parmigiano).

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La storia

Da Cafasso il tempo sembra essersi fermato, per quell’atmosfera familiare che viene anche dall’arredo in legno tipico degli anni passati. Adesso c’è Stefano, classe 1970 a gestire questa eredità. La sua è una storia comune a quella delle grandi famiglie napoletane della pizza, dai Condurro ai Mattozzi, dai Grasso ai Pellone, dai Coccia ai Sorbillo: le famiglie numerose di un tempo, con il passare degli anni la pizzeria da sola non bastava al sostentamento di tutti e i figli maschi si trasferivano in altre parti della città per aprire una propria attività. In altri casi era una bottega che si passava di padre in figlio come per Attilio e Al 22 alla Pignasecca. È proprio questa la storia della pizza napoletana, nata nel ventre di Napoli e poi piano piano estesa in tutta la città e poi ancora anche in provincia. Era questo il sistema di replica prima che, a partire dalla fine degli anni ’80 nascessero le prime catene e i primi investimenti da parte di persone estranee a questo mondo. Oggi tutto questo è profondamente cambiato, ma se la pizza napoletana è arrivata a questi livelli sino a divenire uno stile imitato in tutto il mondo, lo si deve anche e soprattutto a figure come Ugo Capasso che hanno stretto i denti negli anni più difficili della città, dal colera al terremoto per capirci svolgendo con dignità un lavoro che non era mai stato considerato da nessuno. Fu questa la motivazione per cui nell’ultima guida delle pizzerie del Mattino abbiamo deciso di riconoscergli il titolo di “Pizzeria Eccellente” e di premiarlo. Un premio che Ugo, poco chiacchierone, sempre umile, accettò con piacere e garbo, per poi mettersi a lavorare subito e di nuovo al bancone. Dove sarà sempre nel ricordo di quanti lo hanno stimato e goduto della sua arte da pizzaiolo esperto, quella che l’Unesco ha riconosciuto come Patrimonio Immateriale dell’Umanità.

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