Ancelotti, il re della Champions League incompreso solo a Napoli

L'esonero nel Caruso Roof Garden dell'Hotel Vesuvio

Carlo Ancelotti, il re della Champions League
Carlo Ancelotti, il re della Champions League
Giuseppe Taorminadi Pino Taormina
Venerdì 10 Maggio 2024, 07:21 - Ultimo agg. 11 Maggio, 09:36
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Il gentiluomo provò a resistere fino all'ultimo secondo: «Sicuro Aurelio che non posso far nulla per farti cambiare idea?». No, non c'era più nulla da fare. L'esonero venne servito subito dopo una qualificazione agli ottavi di Champions, nel Caruso Roof Garden dell'Hotel Vesuvio. «Ma lasciarsi fu la cosa più giusta», ha ammesso anni dopo, alla vigilia del suo ritorno al Maradona, a novembre dello scorso anno. Carlo Erminio (il nome completo, come quello del nonno) Ancelotti ha conquistato sabato scorso il 28esimo titolo della sua storia e l'altra sera la sesta finale di Champions della sua carriera, inventandosi il cambio di Joselu al posto di Valverde. Nessuno come lui, con il suo coraggio, la sua conoscenza degli uomini e della vita. Unico. Irraggiungibile. Messi insieme, tutti gli allenatori dell'attuale serie A, non ne hanno giocata una di finale. Tranne Thiago Motta, ma da calciatore. «Io bollito? Sì, dopo Napoli così dicevano di me. Ma devo dire che a me il bollito piace tantissimo». Non c'è nessuno come lui. E non c'è nessun altro che non faccia venire il bruciore di stomaco a De Laurentiis con il suo ricordo, visto come è andata a finire. Incredibile, l'uomo più vincente del nostro calcio, capace di far giocare Bellingham terzino, non è mai riuscito a convincere Insigne a spostarsi di dieci metri verso il centro dell'attacco. 

L'avventura 

Un anno fa rischiò di andare via, dopo il 4-0 rimediato con il Manchester City.
Ma Florentino ha la vista lunga e lo ha confermato. C'è poco da fare: è l'uomo della rivoluzione mancata al Napoli, De Laurentiis lo fece andare fine come se avesse messo fine a un equivoco, dopo aver intuito che aveva ingaggiato per conto suo Ibrahimovic per sei mesi (e sette milioni all'anno). Ancelotti è unico nel suo genere, scavalca gli steccati tra gioco a uomo, a zona, tradizionale, innovativo, all'italiana, alla castigliana, alla piastra, al forno al legna. Perché c'è un solo gioco possibile: quello dove vince chi segna un gol in più. Senza estremismi, senza schemi, senza etichette, tik e tok, 80 per cento di possesso. Per far gol, dice, bastano 4 passaggi e 10 secondi. Si gioca in base ai calciatori che uno ha, si gestisce senza ansia ma con fermezza. A Napoli non gli riuscì nulla di tutto questo: ogni cosa, è andata storta. Persino Davide, il figliolo erede al trono, venne respinto dal gruppo azzurro che voleva il papà in campo a gestire gli allenamenti e non l'enfant prodige che nel Real tutti portano alle stelle. Cacciato dal Napoli, rimase senza panchina per meno di dieci giorni: perché lui non è Conte o Spalletti e neppure per una frazione di secondo cadde nella trappola sontuosa dell'anno sabbatico. Sa come funziona, da furbone qual è: uno si prende una sontuosa pausa a spese di chi ti ha rinnegato, annuncia di volersi dedicare ai viaggi in Estremo Oriente, alla meditazione e poi al ritorno non trova nessuno che lo vuole. No, arrivò la chiamata dell'Everton e ricominciò nel club con Klopp sulla sponda opposta. Senza esitazione. Per dimenticare. La parabola di Re Carlo sembrava in discesa, ma un uomo di campagna non molla mai. Si prese due piccole vendette: portandosi Allan, uno dei ribelli della notte dell'ammutinamento con il Salisburgo e, soprattutto, James Rodriguez, che De Laurentiis aveva finto di inseguire senza aver alcuna intenzione di ingaggiare un campione da 10 milioni. Ancelotti vola verso la sua sesta finale di Champions, dopo aver trionfato in Liga, dopo aver guidato con convinzione e determinazione l'armata blanca contro il Bayern Monaco. È il migliore di tutti i tempi. Tranne pochi mesi. A Napoli. 

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