Napoli, intervista ad Arrigo Sacchi: «Calzona ha avviato la sua rivoluzione»

«La crisi? Succede quando hai giocatori non abituati a vincere»

Arrigo Sacchi
Arrigo Sacchi
Giuseppe Taorminadi Pino Taormina
Giovedì 7 Marzo 2024, 07:21 - Ultimo agg. 8 Marzo, 07:37
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La sostanza della rivoluzione sacchiana, perché di rivoluzione si trattò, è in pochi dogmi: fuori casa il Milan deve giocare come a San Siro, non ci si adatta agli avversari né si cambia formazione in funzione loro. «E non solo: conta solo il nostro gioco e la capacità di imporlo. Chi gioca meglio vince sempre». Arrigo Sacchi ha visto quasi tutte le partite del Napoli. È curioso di vedere la svolta di Calzona: domani c'è il Torino e poi la notte con il Barcellona.

Sacchi, che prova sarà questa per il Napoli?
«Un vantaggio ce l'ha: si gioca in un campo meno largo rispetto al Camp Nou. Vero, mi aspettavo di vedere il Barça un po' più in ritardo e invece nella gara di andata mi è apparsa una squadra viva. Ma anche il Napoli cresce, qualcuno che fino ad adesso ha tirato i remi in barca mi pare che abbia smesso di farlo. E non ci sono più quei giocatori sparpagliati per il campo».

La domandona: che fine ha fatto il Napoli delle meraviglie?
«Quando si vince bisogna comunque fare delle valutazioni, come in qualsiasi azienda. Cosa fare per avere altri successi? In Italia non tutti fanno così, esitano prima di rinnovarsi, si attaccano all'aspetto dei sentimenti. De Laurentiis avrebbe dovuto scrutare meglio nella testa dei suoi ragazzi, capire chi aveva ancora voglia e chi no. E decidere di vendere anche a malincuore chi pensava si sentisse appagato, valutare gli affidabili e i fidabili. Ecco, ci dovevano continuare a essere undici Di Lorenzo: è lui l'esempio da seguire, da coltivare».

L'errore del club?
«Il Napoli non ha mai amato i tecnici tattici, ha sempre puntato sugli strateghi.

Una delle squadre più belle viste in Italia negli ultimi decenni è il Napoli di Sarri. Da allora, quella è stata la linea scelta dal presidente: con Ancelotti non ha avuto pazienza e ha sbagliato a non aspettare che i tempi maturassero. Poi ha puntato su Luciano, un altro che pensa che il gioco e il risultato arrivino insieme, con il lavoro. Però, in estate, ha perso la strada. Si è smarrito. Ora con Calzona, cresciuto nella scuola di Sarri e che comunque pure con Spalletti avrà imparato qualcosa, si è forse tornati all'antico. Alle vie che io preferisco».

Certo, tre allenatori in quattro mesi.
«C'è confusione, molta. È evidente. Ma Calzona ha fatto cose belle in Slovacchia e quello che ha fatto in quella nazionale non va sottovalutato. Il Barcellona, però, non è in crisi. E in ogni caso è una di quelle gare in cui gli avversari, quando stanno male, bisogna sempre moltiplicare le forze, le energie, per riuscire a passare il turno. Ma il Napoli sta crescendo e non credo che andrà in Catalogna così sfavorito».

Xavi ha già annunciato l'addio. Ha fatto bene?
«Se uno pensa di essere al capolinea, giusto dire che va via. Avrà una squadra di persone che possono comprendere che dopo tanti anni si voglia cambiare aria, non credo che possa esserci un calo del rendimento per questo motivo».

Non è facile rialzarsi per il Napoli?
«Succede quando hai giocatori che non sono abituati a vincere in una società che, allo stesso modo, non è abituata a farlo. Molti sono finiti vittime della solita sindrome da successo, che coglie tutti. Non sono stati capaci di trovare le contromisure per reagire. Perché a Napoli, come a Roma, non è semplice gestire una vittoria. Churchill diceva che cambiare non equivale a migliorare ma per migliorare bisogna cambiare. Ecco il coraggio che non ha avuto De Laurentiis».

Non è un caso che il bis scudetto riesce solo a Milan, Inter e Juventus nella storia?
«Ero nella primavera della Fiorentina, nel 1982 e venne da me Cuccureddu che con i viola stava lottando con la Juventus per lo scudetto. E mi disse, testuale: Arrigo, se io, Antognoni, Bertoni e questa squadra giocavamo a Torino, il campionato lo avremmo già vinto. Perché è questione di dna dell'ambiente, di mentalità».

Calzona cosa può fare?
«Ecco, le aspettative. Subito altissime: ma uno spartito può essere mai scritto in 10 giorni? Lui ha i codici che piacciono ai calciatori del Napoli ed è l'ultima speranza che il gruppo ha di tornare il Napoli dell'anno scorso: perché tutti gli azzurri sognano di tornare imbattibili come un anno fa. Calzona è la loro ultima speranza: a Barcellona devono cercare di non farsi stringere o stritolare, devono provare ad attaccare in continuazione, con la difesa che è il punto debole che deve essere tutelata e protetta dagli altri. Perché si gioca in undici ed è bene ricordarlo in un Paese in cui in undici non si gioca mai. Il calcio italiano è lo specchio di una nazione dove si cerca di sopravvivere con le furbate».

Per questo è rimasto incantato dal Napoli di Sarri?
«Ogni volta che mi sento con Maurizio, glielo ricordo quello striscione della Curva, quel grazie per essere arrivati secondi ma dopo aver goduto della grande bellezza di un gioco unico. Il pubblico di Napoli ha dimostrato di essere in avanti rispetto a tutti».

Perché Spalletti è andato via?
«Ma è stato lui ad andar via o con la società qualcosa si è rotto? Io non lo so come è andata. So che anche lui ha fatto un capolavoro e che certe cose non le avrebbe mai accettate. Ora vedo cose incredibili: ma davvero Zielinski non gioca a Barcellona? Farsi un dispetto così e come darsi una martellata sui coglioni...».

Però il Napoli sta dando segnali di crescita?
«Vero, Osimhen e Kvara li vedo più organici e compatti. E su questo c'è sicuramente il lavoro di Calzona: essere un collettivo significa avere undici giocatori attivi con e senza palla, significa tenere il pallone rasoterra, significa muoversi sempre. Il collettivo, nonostante qualcuno la pensi diversamente, esalta il talento, non lo imprigiona».

Calzona potrebbe essere l'uomo giusto per il futuro?
«Se conferma quello che penso, ovvero che è uno stratega, dico di sì. Lo stratega è un alleato del club, il tattico, invece, non crede nel gioco e nelle proprie idee, organizza la squadra impostata sulla difesa, con attaccanti che devono aspettare l'errore dell'avversario. E allora, ecco che devi per forza prendere chi è forte ma ti produce il bilancio in rosso. Ma poi nessuno deve piangere...».

Immaginiamo la sfida tra l'Inter di Inzaghi e il Napoli di Spalletti?
«Ecco, di sicuro mi sarei messo in poltrona e me la sarei guardata. È una partita che avrebbe dato delle emozioni, dove ognuno avrebbe provato a essere il padrone. Chi avrebbe vinto? Inzaghi sta continuando la sua crescita, ma a Milano è più semplice. Luciano era più avanti, gli è sempre stato chiaro tutto. Il suo Napoli non aveva paura. Mai. Come anche questa Inter, sia chiaro. Perché può una squadra ricca di idee, avere paura?». 

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