Anatolij, anatomia di un eroe lasciato solo davanti ai banditi

di Francesco Durante
Martedì 27 Ottobre 2015, 22:55 - Ultimo agg. 23:25
3 Minuti di Lettura
Non appena i rapinatori irrompono nel supermercato, chi può scappa, e chi non può farlo alza le mani e resta fermo. Soltanto Anatolij, che dal supermercato era già fuori prima dell’arrivo dei delinquenti, non ne approfitta per filarsela, ma addirittura rientra, per cercare di fermarli. Sarà ucciso, senza che nessuno provi a dargli una mano.



La differenza tra il suo comportamento e quello di tutti gli altri clienti è così evidente che non si può evitare di notarla. Ma che cosa è scattato nella mente di Anatolij? Che cosa l’ha spinto a infilarsi in una situazione in cui nessuno degli italiani presenti si sarebbe mai voluto cacciare? È stato più coraggioso o più sventato?



Da almeno tre decenni continuiamo a meravigliarci ogni volta che un immigrato compie un gesto eroico. Come se gli immigrati non potessero fare che l’esatto contrario: rapinare, spacciare, stuprare, ammazzare. Quando invece «fanno i buoni», escono cioè dagli schemi in cui la nostra cattiva coscienza ha deciso di confinarli, finisce che li chiamiamo «angeli».



Un «angelo» è il bengalese che, nel maggio scorso, soccorse e salvò una donna che, a Roma, s’era buttata nel Tevere. Per quel gesto, Sobuj Khalifa è stato fatto cavaliere dal presidente Mattarella. Lui che non aveva neanche il permesso di soggiorno, lui che tecnicamente era un «clandestino», non si è preoccupato dei rischi che avrebbe corso all’arrivo delle autorità; e grazie al cielo non è stato espulso, bensì premiato.



Tanti altri, prima di lui, avevano dato buona prova. Gli annali della banalità del bene ci raccontano di una badante di Honduras, anche lei senza permesso di soggiorno, annegata nel mare dell’Argentario per salvare la bambina che accudiva da due anni. O dei soccorsi prestati ai passeggeri di due treni scontratisi nel sottosuolo di Roma da due immigrati che forse erano romeni, e che aiutarono i feriti, li confortarono e prestarono loro le prime cure, anche se poi preferirono sparire all’arrivo dei soccorsi ufficiali.



O di quell’auto finita in un canale presso Avezzano, e dell’uomo di carnagione scura, forse marocchino, che non esitò a tuffarsi per salvare tutta la famiglia che era a bordo, e poi scappare, privo com’era di documenti validi. L’elenco potrebbe essere più lungo, ma basterà citare soltanto un altro caso, peraltro molto simile a quello di Anatolij.



Accadde il 7 marzo di quest’anno a Villa di Briano, provincia di Caserta. Anche lì un immigrato irregolare, l’albanese Roland Muca, intervenne durante una rapina in un supermercato, e riuscì a disarmare un delinquente (italiano) che imbracciava un fucile a canne mozze. Gli immigrati non sono dunque nuovi a gesti simili.



Le statistiche, del resto, attestano che quelli fra loro che commettono reati sono assai meno numerosi degli italiani che fanno altrettanto: un dato che non vale solo in termini assoluti e che negli ultimi anni sta evolvendo verso un ulteriore miglioramento. In questo quadro, non dovremmo dunque meravigliarci se gli immigrati «eroi» sono più numerosi degli «eroi» italiani.



Il 19 settembre 2008, dopo la strage di sei africani compiuta dalla camorra, a Castel Volturno gli immigrati scesero in piazza per manifestare la propria rabbia, e per chiedere giustizia. Fu una manifestazione senza precedenti: tutta la comunità gridava le proprie ragioni, a testa alta e senza paura.



Nei mesi e negli anni precedenti, nelle stesse zone, la camorra aveva mietuto molte vittime innocenti italiane, ma nessuno s’era mai sognato di inscenare una manifestazione simile. Chi piangeva quelle morti preferiva tenere per sé la rabbia, senza esporsi.



Gli immigrati no: e questo era un grande segnale di novità. Roberto Saviano scrisse che accadeva perché gli immigrati non conoscono l'omertà e, inoltre, non hanno «la percezione che tutto è sempre stato così e sempre lo sarà». Temo purtroppo che Saviano abbia ragione.



A Castello di Cisterna c’è stata tanta solidarietà per la famiglia del povero Anatolij, ma è anche vero che qualche mano anonima ha voluto tracciare sui muri scritte infami contro di lui, e che sui social network sono stati in tanti, in troppi, a manifestare solidarietà nei confronti degli assassini.



E ora il video diffuso dai carabinieri ci mostra senza alcuna possibilità di dubbio la solitudine di Anatolij nei momenti cruciali di quella sera maledetta, e la paura – ma si potrebbe definirla anche un sentimento di fatalistica accettazione, e di sostanziale collateralità – che paralizzava tutti gli altri. Quelli che, in un mondo in cui sembra impensabile che le cose possano cambiare, decidono che è meglio farsi gli affari (e magari anche gli affaracci) loro.

maildurante@gmail.com