Fuori dall'Opg, la grande paura di sentirsi libero: «Qui dentro ho perso la volontà»

Fuori dall'Opg, la grande paura di sentirsi libero: «Qui dentro ho perso la volontà»
di Maria Pirro
Martedì 31 Marzo 2015, 03:45 - Ultimo agg. 27 Aprile, 16:41
5 Minuti di Lettura
«Sono perseguitato, non pericoloso». Si ferma, alza gli occhi e porta lo sguardo a navigare in un pezzo di vuoto. Perché c'è un muro che si è alzato tra il suo corpo sfibrato e il mondo che lo ha messo ai margini. «Sono stato per 27 anni e 7 mesi ad Aversa, dall'Opg mi hanno dovuto cacciare».



Fuori si scioglie la neve al sole, l'aria è tersa, ma M.G. non vuole uscire mai: è stanco, di una stanchezza che gli morde le gambe dalle prime ore. «Non ho più le forze per lavorare. Sto qui, quando sono morto me ne vado» implora sottovoce. Adesso M.G. ha 59 anni e si muove in un perimetro ristretto: tra la stanza da letto, la mensa e lo studio del medico. Il grande passo è iniziare a raggiungere la macchinetta del caffè, dalle 9, per 4 volte al giorno: è la sua terapia riabilitativa. Senza andare oltre: «Mi dà fastidio la luce. Sì, la vita che faccio è terribile. Sono perseguitato peggio di Gesù Cristo sulla croce». Prima quest'uomo è stato all'ergastolo bianco in provincia di Caserta, è precocemente invecchiato dietro le sbarre («Ma alle sbarre mi ero abituato») fino a quando, in vista della chiusura di tutti gli ospedali psichiatrici giudiziari in Italia fissata per oggi, 31 marzo, è stato trasferito in un viaggio senza ritorno.



«Meglio che non mi guardo allo specchio, mi vedo così brutto» sussurra, e riporta gli occhi su, in alto. Solo per lasciare l'Opg, ormai libero, M.G. ha impiegato tre mesi: oggi si trova in una residenza dell'Asl a Bisaccia, in Irpinia. Ha una pensione di invalidità, potrebbe andarsene, invece di farlo si lascia cadere sulla sedia. «Mi arrivano notizie brutte dalla casa che è rimasta abbandonata. Sento le voci, anche se la televisione è spenta. Quelli lì sopra, del paese, mi danno fastidio. Parlano di me, ma non hanno altro a che pensare. E poi, come fanno a sapere tutti i fatti miei?». Un'altra pausa, pesante, densa. Poi, di scatto, precisa, riprendendo il vecchio filo: «Sono un perseguitato ma non sono pericoloso. Non me la prendo con nessuno, anche se le voci mi dicono di non dirlo a ripetizione». Insiste, spiega meglio: «Gli spiriti mi danno dei colpi nell'anima e mi fanno piangere. Sono un po' impaurito...».



Racconta che la malattia si è scatenata due anni dopo la morte del padre, «che faceva il pecoraro, e io lo aiutavo. Lavoravo anche come manovale, mi divertivo. Nel 1984 ho cominciato a non stare bene. Mi hanno attaccato le voci e io ho attaccato loro. In quei giorni ho chiesto di essere ricoverato. Sono impazzito, ma non avrei dovuto sparare. Come l'ho pensato, così l'ho fatto. Certo, a salve. Volevo colpire e non l'ho colpito, sangue non ne ho visto». Difatti nessuno è morto, ma M.G. è finito tra i sepolti vivi: «Mi hanno portato in carcere, mi hanno preso le voci un'altra volta e ho dato un pugno alla televisione e l'ho scaraventata contro un compagno. Quindi sono arrivate 13 guardie che hanno detto: “Non abbiamo paura di te, ma che ti fai male da solo e poi se la prendono con noi...”. Dopo non sono mai andato dal giudice, proprio perché stavo male. Ho firmato altrimenti sarei rimasto in mezzo ai criminali e mi hanno portato ad Aversa». Ventisette anni dopo, eccolo in Irpinia.



«Qui non volevo venire per le sigarette e per le donne. Perché si può fumare poco, e perché c'è sempre una specie di voce che parla ma io non me la prendo con nessuno, me la prendo solo con quelli del mio paese che è ad appena 15 chilometri di distanza». Con il senno di poi, M.G. riconosce questi vantaggi della nuova condizione: «Qui c'è più pulizia, si litiga di meno. Ma non tutti salutano, siamo tutti isolati». Il problema è che l'età media è più alta, i ricoverati sono quasi tutti anziani. E le giornate sembrano succedersi come fotocopie sbiadite: «Da parecchio tempo non guardo la televisione e non leggo neanche i giornali, perché ho problemi alla vista. Ogni mattina fino alle 10 ascolto la radio. Passeggio, mangio, dormo. Ho giocato a carte solo una volta e mi è bastato: qui non ci stiamo con la testa».



Ma non è sempre stato così. «C'è stato un periodo in cui mi sentivo di lavorare, dal 2010 fino al 2014 ho chiesto di uscire dall'Opg. Inutilmente. Poi le voci sono tornate». Un tormento, di giorno e di notte. «Cure non ce ne sono, la mia è una malattia spirituale. Ma quando faccio la comunione mi prende peggio, la prossima volta non vado a messa». Piuttosto, «dovrebbe seguirmi di più uno psicologo, i farmaci non mi servono perché ragiono. Li prendo solo rilassarmi e stare nell'ambiente». M.G. ha un desiderio che lo riporta indietro nel tempo: «Vorrei diventare potente come prima e avere un rapporto con una donna. Da giovane ne frequentavo una, separata dal marito, poi un'altra, un'altra e un'altra... Andavo negli alberghi...». Anche gli amici di allora sono vivi: «Ma non sono neanche venuti a trovarmi. Mia madre sempre, mi portava soldi e biancheria, e continuava a lavorare nei campi». I cugini li ha appena ritrovati. «Sono venuti ieri a trovarmi. Ne ho riconosciuti tutti, tranne uno, di dieci anni più grandi di me...». Un'altra sensazione riscoperta: «L'aria buona: ad Aversa si moriva di caldo, d'estate. Anche le stagioni sono cambiate».



In una mattina di marzo a Bisaccia nevica di nuovo. Franco Arminio è autore di versi che sembrano scritti per la circostanza. Per raccontare questa terra, dove «l'inverno a marzo finisce la prima volta, ma dovrà finire molte volte ancora prima di finire veramente». È l'immagine della Nemesi. «Il vento soffia ovunque sei, il bianco della neve è ancora quello del Cinquantasei». M.G. fissa le lancette che indicano mezzogiorno. «È l'ora di pranzo», esclama come a voler chiudere il discorso. «Non mi interessa il panorama, ma la mia volontà che ho perduto. Ho ormai un'età, e sono qui. Vorrei la mia volontà ma chi me la dà più?».

© RIPRODUZIONE RISERVATA