L'ultimo cantastorie, Otello Profazio, calabrese di Rende, se n'è andato ieri nell'ospedale di Reggio, dove viveva nella frazione di Pellaro. Aveva 88 anni e soffriva da tempo di patologie cardiache: quando, tre giorni fa, era stato ricoverato, le sue condizioni erano apparse subito gravi.
Oggi qualcuno lo definisce «l'Omero di Calabria», altri ricordano l'exploit anche commerciale di «Qui si vende l'aria», un milione di copie vendute nel 1974. Ma domani l'avranno già dimenticato, come hanno fatto in passato, istituzioni locali comprese (quelle nazionali non si sono scomodate, un folksinger non vale abbastanza).
Scomodo e non allineato Otello lo è stato sempre, di sinistra ma non comunista, armato di chitarra e parole di denuncia quando erano cose di moda, ma dal Sud, che non era di moda nemmeno negli anni 60/'70.
Si campava d'aria, perché costretti, fino ad esplodere in j'accuse come «Governu talianu», cancellato dalla programmazione radiotv, ma non abbastanza «impegnato» per antropologi e sociologi militanti (poi pentiti e convertiti): «Avevano delle remore sulla mia attività, mi accusavano di edulcorare», si arrabbiava Profazio negli ultimi tempi quando gli ricordavi il suo essere stato combattuto anche a sinistra. «Dicevano che la mia attività più importante è stata quella di ricercatore, perché ho registrato 300 ore di documenti sul campo, non solo le cose che ho riproposto. Ho fatto trasmissioni alla radio e alla tv, scritto rubriche sui giornali, tenuto a battesimo Matteo Salvatore, Rosa Balistreri, il Duo di Piadena. Ho musicato Buttitta, che non è stato un poeta dialettale, ma il Dante Alighieri siculo: i versi di “Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali” o “Il treno del sole” sulla tragedia di Marcinelle erano storie da cantare, poesie da suonare, poemi che dovevano diventare ballate».
Carlo Levi ebbe a cuore la sua vis polemica e soprattutto l'lp del 1969, «L'Italia cantata dal Sud», che capovolgeva la vulgata unitaria: «Si parlava, forse per la prima volta di Garibaldi, emigrazione, brigantaggio, e si diceva, violentemente, che li piemontesi so come li pulci, vannu unni vonnu e sucanu a unni ponnu».
Più ironico che retorico, cantò il dramma dell'emigrazione alla sua maniera in «Mannaja all'ingegneri» («Mannaggia all'ingegnere che ha inventato la ferrovia... che se non faceva i mezzi, all'America non se ne ia») e in «Cristoforo Colombo« («Cristofiru Culumbu, chi facisti?/ La mugghi giuvintù tu rruvinasti./ Ed èu chi vinni mi passu lu mari/ cu chiddu lignu niru di vapuri!/L'America ch'è ricca di danari/ è girata di paddi e cannuni/ e li mugghieri di li mericanni/ chianginu forti chi rristaru suli»).
Nel 2016, riparazione tardiva ma gradita, era arrivato il Premio Tenco alla carriera: «Forse me lo aspettavo prima, forse non veniva perché scambiavano le mie strofe d'autore per repertorio popolare», sussurrava con l'eterno piglio fintamente strafottente nei camerini del teatro Ariston di Sanremo, che quell'anno vide premiato con il suo benemerito disco «Voltarelli canta Profazio» anche Peppe Voltarelli, tra i rari «profaziani militanti» con Francesca Prestia, Massimo Ferrante, Vinicio Capossela e Daniele Sepe.
Ciao, Otello ciao, e grazie di tutto, anche se qua si campa ancora d'aria.