«Pino è»: le foto per dirlo.
Alessandro Daniele racconta il padre in un libro

Pino Daniele in una foto di Luciano Viti dal libro "Qualcosa arriverà", per gentile concessione Mondadori
Pino Daniele in una foto di Luciano Viti dal libro "Qualcosa arriverà", per gentile concessione Mondadori
di Federico Vacalebre
Martedì 13 Settembre 2016, 13:32 - Ultimo agg. 18:54
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«Fin dagli esordi, c’è una costante nella carriera artistica di mio padre: il rigore, la ricerca, lo studio e il confronto per migliorarsi, in evoluzione continua e ben ancorata alle sue radici, senza fermarsi sulle posizioni raggiunte», scrive Alessandro Daniele nella prefazione di «Qualcosa arriverà» (Rizzoli, pagine 256, euro 35), ennesimo omaggio al genitore, atteso nelle librerie giovedì 15. Come nel prezioso cofanetto postumo «Tracce di libertà», come nell’allestimento del museo dedicato al Nero a metà ospitato al Mamt di Napoli, Alessandro prova ad attenersi a quelle costanti: rigore, ricerca, studio.
Nessuno scoop, nessun gossip, nessun presunto inedito strombazzato come una scoperta fondamentale. In sintonia con i lavori sin qui griffati con la fondazione intitolata al padre, Daniele jr mette in ordine negli archivi a sua disposizione, puntando questa volta soprattutto sulle immagini: fotografie spesso inedite, scattate da artisti che hanno avuto un rapporto privilegiato con il Lazzaro Felice. Luciano Viti, Guido Harari, Giovanni Canitano, Lino Vairetti, Roberto Panucci, Cesare Monti, Priscilla Benedetti, Mimmo Jodice, Jasmine Bertusi, Daniele Venturelli, Giuseppe D’Angelo, Rino Petrosino.
Sono immagini che servono per dire «Pino è», per citare il suggerimento di Renato (Zero?) al manager Ferdinando Salzano alla ricerca di un titolo per un ipotetico concertone-omaggio al San Paolo. Pino è negli scatti che lo mostrano sorridente con una delle sue amatissime chitarre, nei primissimi ritratti rigorosamente in jeans, nelle testimonianza delle prime esperienze in sala di registrazione (con una Dorina Giangrande non ancora sua moglie, come racconta lei in uno dei pochi scritti «privati» del volume), con i compagni di sempre (Senese, De Piscopo, Zurzolo, Amoruso, Esposito, anche loro puntuali nel ricordare l’amico scomparso con parole emozionate), sul palco, in momenti di riposo, con i colleghi con cui si è divertito a jammare (tra gli altri, scrivono di lui Jovanotti e Clementino), al mare, tra i templi di Paestum o all’anfiteatro romano di Ostia.
E «Pino è» nel racconto di Renzo Arbore, Peppe Lanzetta, Toni Servillo, Gianni Minà, Gaetano Daniele (l’amico del cuore di Massimo Troisi), Enzo Gragnaniello, Giuliano Sangiorgi. Pino è nelle sue parole che tornano a ricordarci come andasse davvero in direzione ostinata e contraria sempre: agli esordi, quando ai testi arrabbiati univa melodie e soprattutto ritmo, quasi un reato nei tempi della dittatura del messaggio; nella seconda parte della sua produzione, quando i nostalgici avrebbero voluto condannarlo all’autoclonazione, all’eterno amarcord.
«Pino è» nello spazio saggiamente offerto alle parole di collaboratori abituati al dietro le quinte come il maestro Gianluca Podio, fonici come Fabio Massimo Colasanti, Fabrizio Facioni e Stefano Dinarello, il suo tecnico personale Michele Vannucchi: cantautore che si riteneva ormai un suonautore, Daniele avrebbe particolarmente apprezzato.
Ancora irreperibile, persino per Alex Daniele, la favoleggiata immagine che ritrarrebbe il Mascalzone Latino a San Siro, il 27 giugno 1980, in compagnia di Bob Marley, secondo qualcuno puntualmente intento a rollarsi un joint nell’attesa di un concerto entrato nella storia. Come quello del 19 settembre 1981 in piazza del Plebiscito di cui qui ci sono solo foto sgranate tratte da una registrazione tv.
Per Roberto De Simone Pino «ha scritto le sue prime canzoni in un momento storico in cui l’ufficialità, la napoletanità ufficiale, celebrava solamente il dialetto piccolo borghese di Eduardo De Filippo». Capace di «valicare le convenzioni della politica» in anni in cui la canzone giovanile era legata a doppia corda con la politica, battitore libero, cane selvaggio, uomo in blues, Pino è «la voce di Napoli», sintetizza Roberto Saviano, rubando la definizione che proprio Eduardo diede a Sergio Bruni e rischiando l’ira proprio del brunipatuto De Simone. Lo scrittore di «Gomorra» ricorda le polemiche sui funerali romani di Pino, e sul suo controverso rapporto con la città: «Andare via da Napoli spesso è una necessità. Nel suo caso, immaginate la vita di un artista giovanissimo che intorno ha tutti i familiari, gli amici, persone che gli chiedono cose». Ma, tanto, «lui è la storia di Napoli, perché l’ha resa universale. E noi, scrittori, poeti, artisti, registi che nasciamo a Napoli, siamo napoletani, abbiamo come un marchio: non sarà mai “regista”, “cantante”, “poeta”, sarà sempre “regista napoletano”, “scrittore napoletano”, “cantante napoletano”. Quel “napoletano” non ce lo toglieremo mai. A me piace come cosa, ma non perché ho questa identità napoletana che voglio conservare e sbandierare, ma perché Napoli ci ha dato il privilegio di poter raccontare il mondo attraverso di essa». Napule è Pino Daniele (ma non solo), Pino Daniele è Napule (ma non solo), insomma.
 

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