San Gennaro è Napoli, non è solo un patrono, non è un sant'Ambrogio qualsiasi, dottore della Chiesa, certo, ma un cittadino, anzi sindaco celeste che...
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Al canto e alla poesia, alla spiaggia e al castello, alle ali e all'uovo.La vicenda di san Gennaro, del suo miracolo (o più correttamente prodigio) del sangue che ferma la lava del Vesuvio e che placa le pestilenze, affonda le radici nella Napoli cristiana e pagana. Ha molto della leggenda che lentamente si sustanzia in storia, in atti e in diritto, in una parola si istituzionalizza. Si tratta di fede, di spirito sebbene legato alla carne viva e al cuore più palpitante del proprio popolo. Gennaro è venerato dai credenti e dai laici. Poiché è santo e cittadino di Napoli, archetipo e icona pop, senza imbarazzo.
Come lo sia diventato è un atto che prevede l'accettazione del mistero, perché non esiste un'iscrizione all'anagrafe, ma solo al martirologio della Chiesa. Vescovo di Benevento, decapitato a Pozzuoli, la propria cittadinanza e il proprio legame fisico con i napoletani se l'è conquistato sul campo, non attraverso parole e tantomeno attraverso omissioni, ma con gli atti: la capacità di aiutare, sempre e con amore, la città. E la città sa che deve invocarlo per una protezione civica, comune a tutti, e non per costringerlo a intercedere per una pur legittima grazia privata e personale.Le sue stesse reliquie sono custodite non dalla Chiesa, ma dal popolo napoletano, attraverso la Deputazione che nel 1527, mentre infuriava l'ennesima pestilenza, firmò davanti al notaio un atto legale: la Cappella in cambiò della protezione saecula saeculorum. Patto di sangue, perché si manifestava con il sangue e prende vita e dà vita, miracolosamente. Tutto ciò ha reso san Gennaro napoletano, più napoletano degli stessi napoletani, sacro e laico, santo e fratello.«A San Gennaro, al cittadino salvatore della Patria, Napoli salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue miracoloso, consacra»: è questa la traduzione dell'iscrizione latina incisa sul cancello fanzaghiano che separa la Cappella (territorio del Comune) dal Duomo (territorio della Chiesa). Risale al 1646, anno precedente la rivolta di Masaniello, anno che dirime, fino alle vicende di questi giorni, la vexata quaestio della napoletanità, della laicità del santo. Tre anni prima c'era stata una Bolla pontificia di Urbano VIII che dava ragione alla Deputazione (rappresentante del popolo) sulla proprietà cittadina, popolare, delle reliquie, della Cappella e del Tesoro, contro le pretese dell'invadente cardinale Ascanio Filomarino. Forse è l'atto più chiaro, prima della Bolla del 1927 firmata da Pio XI. Leggi l'articolo completo su
Il Mattino