Stato-mafia, assolto il colonello Mario Mori: «I carabinieri volevano fermare le stragi»

Stato-mafia, assolto il colonello Mario Mori: «I carabinieri volevano fermare le stragi»
La trattativa ci fu, ma non si può configurare come un reato. L'unica finalità dei carabinieri del Ros che nel 1992, dopo la strage di Capaci, contattarono Vito...

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La trattativa ci fu, ma non si può configurare come un reato. L'unica finalità dei carabinieri del Ros che nel 1992, dopo la strage di Capaci, contattarono Vito Ciancimino perché facesse da intermediario con Totò Riina, era quella di fermare le stragi «alimentando la spaccatura già esistente in Cosa nostra con una iniziativa dagli effetti divisivi». Facendo leva su tensioni e contrasti, si cercava insomma di dialogare con Bernardo Provenzano per colpire meglio l'ala stragista di Totò Riina. È il passaggio cruciale della sentenza con la quale la Corte d'assise d'appello di Palermo ha assolto, il 23 settembre dell'anno scorso, i generali Mario Mori e Antonio Subranni, il colonnello Giuseppe De Donno e Marcello Dell'Utri. Condannati invece Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca che, loro sì, avevano l'obiettivo di un'azione eversiva. Per i magistrati si chiama «minaccia di un corpo politico dello Stato». 

Il corpo politico che avrebbe dovuto essere costretto ad adottare provvedimenti a favore della mafia era il governo di Silvio Berlusconi. Ma la minaccia di Cosa nostra non arrivò a destinazione. O, almeno, non c'è la prova che questo sia accaduto. Il piano fu «arrestato al livello del tentativo», da attribuire a Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, scrivono i giudici in un capitolo della sentenza lunga 2.971 pagine. «Le finalità dell'agire di Mario Mori sono incompatibili con la configurabilità a suo carico di un dolo», «essendo suo obiettivo esclusivo non già di corroborare la minaccia mafiosa, bensì di sterilizzarla». Un altro passaggio riguarda l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e l'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso. Per loro arriva, dopo tanti anni, una sorta di riabilitazione. Fu «ingeneroso e fuorviante», e perfino «frutto di un errore di sintassi giuridica», alzare ombre sulla loro disponibilità a cedere alle minacce di Cosa nostra. «Con il risultato - spiegano i giudici di appello - di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale».

Un altro capitolo della sentenza contesta la tesi che la trattativa abbia prodotto un'accelerazione della strage di via D'Amelio per uccidere Paolo Borsellino. I giudici di appello non la pensano come quelli di primo grado: «L'operazione Borsellino era già in itinere», avvertono. «E allora si può concedere che l'essere venuto a conoscenza che uomini dello Stato si erano fatti sotto per negoziare non ebbe l'effetto di dare la precedenza all'attentato a Borsellino, sconvolgendo un'ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani», scrive la Corte. Semmai, si può credere che l'ordine di Riina per l'attentato di via D'Amelio «possa avere trovato origine nell'interessamento di Borsellino al rapporto mafia e appalti». Intendeva riprendere in mano il dossier per approfondire alcuni spunti. Ma non ne ebbe il tempo.

Quanto alla trattativa, la linea sarebbe stata quella di mandare segnali. «Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano (cioè di non arrestarlo, ndr), ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato». Anche la mancata perquisizione del covo di Riina può essere ricondotta a questa strategia. Era un atto «simbolico». Serviva a lanciare un «segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo». Secondo i giudici, insomma, non era un segno di debolezza dello Stato. «Leggeremo con attenzione le motivazioni e valuteremo di conseguenza gli spazi per il ricorso per Cassazione», ha commentato la procuratrice generale di Palermo Lia Sava. C'è tempo fino al 15 ottobre.

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Il Mattino