Pietrarsa, l'anniversario del 6 agosto e la polemica tra il Pungolo e il colonnello Corsi

Mercoledì 6 Agosto 2014, 12:47
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L'anniversario è ormai noto. Ricorre oggi e riporta al 6 agosto del 1863. E' la data della prima protesta operaia dell'Italia unita, della reazione dei carabinieri che spararono, uccidendo 7 operai e ferendone 20. Sì, è la strage di Pietrarsa, stabilimento metallurgico che, voluto da Ferdinando II di Borbone nel 1844, nei tempi d'oro dava lavoro a 1050 tra operai e militari. Non tutti sanno che, nei due anni che precedettero la svendita ai privati dell'opificio, avvantaggiando l'attività dell'Ansaldo di Genova, ci fu un lavorio frenetico di deprezzamenti, speculazioni, manovre basse per svilire lo stabilimento. L'obiettivo era colpirne la credibilità, l'attività economica, la capacità produttiva per smantellarlo e farlo arrivare nelle mani di gente senza scrupoli pronta ad arricchirsi. Alla manovra si prestà il giornale il Pungolo, fondato a Milano da Leone Fortis nel giugno del 1859. Vendeva diecimila copie e, nei numeri 191 e 192 del 1861, si occupò di Pietrarsa. Lo fece pubblicando in due tempi una lunga lettera che deprezzava la fabbrica, bollandola come frutto di manie di grandezza della precedente dinastia borbonica, senza convenienze produttive e senza guadagno reale. Fabbrica di Stato, priva di clientela privata propria, scrisse il Pungolo. Il giornale aggiunse che "il successo non à corrisposto alle aspettative", definendo lo stabilimento "un peso gravoso per lo Stato". Era la premessa alla relazione che avrebbe presentato al governo l'ingegnere nizzardo Sebastiano Grandis, a favore della conservazione della proprietà pubblica dell'Ansaldo con conseguente vendita ai privati di Pietrarsa. Nel deprezzare l'opificio, il Pungolo scrisse che viveva solo di commesse pubbliche della Marina e della Ferrovie, come se, allora come oggi, fosse una vergogna. Le conclusioni erano presto dette: vendita a poco prezzo, senza interessi, riducendo l'eccessiva manodopera. La reazione, in sordina ma con il cuore, fu limitata a poche voci. Tra queste, il colonnello d'artiglieria Luigi Corsi che era stato direttore di Pietrarsa fino all'unificazione. Scrisse di getto un libricino di risposta, pubblicato dalla tipografia di Giuseppe Carluccio in vico Carogioiello a Napoli. In 43 pagine, il colonnello rintuzzò le tesi del Pungolo. Citò dati, come oggi si direbbe il fatturato tra gli anni 1858 e 1860: un milione e 66141 ducati. La distanza eccessiva da Napoli? Solo due miglia, rispose Corsi. E poi il punto più scandaloso, che svelava le intenzioni della lettera anonima accolta dal Pungolo: la proposta di pagamenti per la vendita solo dopo 15 anni dalla cessione e senza interessi. Come a dire: un regalo, per un opificio in grado di rifornire Ferrovie e Marina militare.  Le conclusioni dell'ex direttore sembravano, e sembrano ancora oggi, pacate e razionali, che si prestano ad argomentare qualsiasi cessione di "gioiello di Stato". Le svendite, ieri come oggi, rischiano sempre di arricchire privati e distruggere aziende prestigiose. L'ex direttore, così, proponeva di tener presente l'effettivo valore dello stabilimento, calcolarne proprietà e produzione, tutelare le 800 famiglie che vivevano di quell'attività. Scrisse: "Copriamo d'infamia coloro che volessero abusare della pubblica fiducia e, sotto il manto del pubblico bene, non aspirano che ai soli propri vantaggi". Fu inascoltato. Due anni dopo, la svendita ai privati e il triste epilogo dei licenziamenti e degli spari mortali dei carabinieri. Era il buongiorno dell'Italia unita alle lotte operaie
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