La farina integrale non c'entra nulla con la pizza napoletana

Sabato 20 Giugno 2015, 18:33
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«Sai perché le carote fanno bene alla vista?». «No, perché?» «Hai mai visto un coniglio con gli occhiali?». Questa barzelletta decisamente stupida potrebbe rappresentare meglio di ogni altra metafora la perdita che noi italiani stiamo subendo rispetto al rapporto che abbiamo sempre avuto con il cibo. Una frammentazione culturale ben descritta nell’ultimo libro del professore Marino Niola (Homo dieteticus, Il Mulino) che sostanzialmente può essere ricondotta ad un solo atteggiamento: la convinzione che l’uso (o la privazione) di alcuni alimenti possano avere un riflesso diretto sulla salute del nostro organismo. L’idea, cioè, che tutto ciò di cui abbiamo bisogno, o che dobbiamo evitare, sia in un solo alimento. La gioia del cibo, l’attesa dei tempi stagionali, il rapporto completo con tutto ciò che è edibile e potabile, stanno ormai per essere sostituiti dalla visione farmaceutica degli alimenti. Alla base di questo nuovo Medioevo, nel quale una moda si succede all’altra in maniera ossessivamente inutile (visto che aumentano le patologie oncologiche), c’è la perdita del rapporto con la produzione del cibo e dell’equilibrio sano che ciascuno di noi dovrebbe avere quotidianamente con quello che mangiamo. La pizza napoletana ha subìto l’offensiva degli integralisti dell’integrale. Un po’ come il pane, i cornetti, i grissini, le fette biscottate. Dopo averne abbondantemente favorito la diffusione, le multinazionali del cibo hanno steso la nuova lista dei cibi canaglia, quasi tutti bianchi: zucchero raffinato, farina 00, sale, latte e magari anche burro. Eppure si tratta di prodotti alla cui produzione l’uomo è arrivato dopo secoli di studio e ricerche riuscendo a realizzare alcune delle cose più buone e celebrate dall’arte, dalla musica e dalla letteratura: tantissimi dolci (come il babà) non esisterebbero senza di loro, non potremmo mai mangiare un piatto di tagliatelle emiliane, il pane di Matera e neanche, ovviamente, una fetta di pizza napoletana, ossia il prodotto più alto che l’ingegno umano ha ottenuto dall’equilibrio tra farina, acqua, lievito e condimento. Ci sono altri mantra diffusi da una informazione spesso moltiplicatrice di luoghi comuni: il lievito madre prodigioso, la cottura a legna dannosa nonostante sia la più diffusa dalla conoscenza del fuoco in poi, la necessità che ci sia farina integrale perché una pizza sia sana. Si tratta di un cumulo di sciocchezze enormi, come dimostra la prima pubblicazione scientifica sulla pizza pubblicata dall’Università Federico II dai professori Paolo Masi e Annalisa Romano in collaborazione con il pizzaiolo Enzo Coccia. Perché in realtà le fibre di cui abbiamo bisogno ce le può regalare una piccola fetta di ananas dopo aver mangiato la pizza, mentre la farina integrale, quando non è certificata biologica (e i parametri europei sono stati di molto allargati a sfavore della salute) è la più tossica di tutte perché è lì che si concentrano i residui dei trattamenti chimici. E se l’uomo si è sforzato di eliminarla dalla farina il motivo è proprio questo, avere un prodotto di qualità superiore. Ma, soprattutto, la pizza è un piacere, una gioia e per ottenere la giusta elasticità si deve fare a meno della farina integrale, al massimo si può miscelare la farina 01, ma la 00 resta la migliore in assoluto per ottenere quel prodotto che piace a noi napoletani e che sta avendo uno straordinario successo in tutto il mondo. Le multinazionali del gusto, sempre pronte alle inversioni di marcia, adesso ci spiegano che bisogna usare l’integrale, ma il motivo è semplice: l’uso di questa farina fa diventare tutte le pizze eguali, togliendo ogni specificità a quella napoletana che si trasformerebbe in un biscotto immangiabile anche per un ciuccio. Dunque quando andate a mangiare una pizza, non preoccupatevi di sapere se è stata usata farina integrale, pretendete, per avere un prodotto di livello mondiale, che sia di tipo 00, e verificate che siano stati usati buoni pomodori, ottimi oli, straordinari latticini. Perché questo fa la differenza tra l’uomo e un pollo che mangia chicchi sani: il primo si gode la pizza artigianale, il secondo viene spennato da abili comunicatori al soldo di finti sacerdoti del salutismo al servizio delle multinazionali.
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