La Pizza all'Unesco, gli inglesi e Franceschini

Venerdì 27 Marzo 2015, 15:44
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La pizza napoletana è ufficialmente candidata dell'Italia all'Unesco come Patrimonio Immateriale dell'Umanità. Ma non è l'unica buona notizia per l'agroalimentare italiano: nelle stesse ore in cui la Commissione presieduta da Giovanni Puglisi assumeva questa storica decisione, l'Europa bocciava la cosidetta "etichetta a semaforo inglese" con una lettera di messa in mora, prima tappa della procedura di infrazione. Due risultati che vanno in una sola direzione: la tutela giuridica della Dieta Mediterranea e del sistema food nazionale. La pizza, si sa, è talmente imitata e trasfigurata nel Mondo da far dimenticare addittura la sua origine partenopea, pur essendo, con la Stg (Specialità Tradizionale Garantita) l'unica al mondo ad avere un marchio di tutela europeo. Ad attaccare la tradizione napoletana non solo le grandi multinazionali del surgelato e le catene mondiali, ma anche mode e tabù diffusi dal "Media Food Terrorism" che usa tv e internet per diffondere credenze prive di ogni scientificità capovolgendo a volte la realtà e trasformando, per esempio, la farina 00 da eccellenza italiana riconosciuta in tutto il mondo a "nemico" della salute. Proprio l'idea che ci siano cibi buoni e cibi cattivi è alla base della "etichetta a semaforo" utilizzata in Gran Bretagna che, con eccessiva  schematizzazione, allontana la verità scientifica secondo cui la giornata alimentare è un insieme di alimenti che, assunti singolarmente, non fanno né bene e né male. Basti pensare al paradosso che l'olio d'oliva, sicuramente il più grande alleato della salute umana, è stoppato dal "rosso". Adesso la Commissione ha ufficializzato la propria contrarietà a questo sistema, usato soprattutto come forma di protezionismo per i prodotti delle multinazionali, per "presunta violazione di libera circolazione delle merci". Del resto, proprio mentre l'alta cucina del Nord scopre il valore dei vegetali nei propri piatti abbandonando carne e salse, l'industria alimentare ha scatenato una forte campagna contro la Dieta mediterranea, così battezzata dal medico americano Ancel Keys, sostenendo che fa male e fa ingrassare. E' di qualche mese fa la famosa copertina del Time con un ricciolo di burro e la raccomandazione "Eat butter" (mangia burro). Insomma, la battaglia mondiale sulle abitudini alimentari è in pieno svolgimento perché, oltre ad essere un confronto fra culture diverse è anche, e soprattutto, un business in crescita, al tempo stesso ciclico (sul lusso) e anticiclico (sullo street food) ed è per questo che la candidatura della pizza napoletana all'Unesco, sostenuta da 300mila firme raccolte da Associazione Pizzaioli Napoletani, Coldiretti e Fondazione Univerde di Alfonso Pecoraro Scanio, assume un valore profondo. La pizza infatti è proprio come lo Champagne, ben tutelato dai francesi (che hanno impedito ai nostri produttori di bollicine di usare il termine Champenois sulle bottiglie): una elaborazione collettiva manuale e culturale di una intera comunità, formata da milioni di persone, che ha oltre tre secoli di storia. Un cibo che ha raggiunto la perfezione tra farine, pomodoro e altri ingredienti ormai codificato e Napoli, dopo San Paolo del Brasile, con le sue 1400 pizzerie è la seconda città di forni al lavoro, la prima se consideriamo quelli a legna. Margherita, marinara, pizza fritta sono i grandi classici intramontabili che si stanno rinnovando grazie al costante miglioramento della materia prima ormai in corso da diversi anni. Esistono, certo, altri prodotti da forno, ma si tratta di focacce perché la componente panosa è sempre riconoscibile e distinta dalla farcia. Forse solo la New York Style, quella con peperoni e pomodori, creata da emigranti napoletani, calabresi e siciliani alla fine dell'800, può vantare una storia altrettanto interessante. Tutte le altre "pizze" sono solo espressioni individuali sparse qua e la in Italia, interessanti e buone, ma prive di quella memoria collettiva, di quel patrimonio manuale comune trasmesso di generazione in generazione che la rendono una credibile candidatura come Patrimonio Culturale dell'Umanità. Una curiosità: il Ministero dei Beni Culturali non ha appoggiato la candidatura e questa posizione ha allungato di molto la riunione della Commissione. Per il dicastero di Franceschini è molto più rappresentativa l'"Arte della falconeria" e dopo molte discussioni, ha ottenuto che l'Italia la presenti comunque come "bene transnazionale". Insomma, quello che è considerato il cibo del futuro, capace di sostenere migliaia di posti di lavoro e di rilanciare l'agricoltura di qualità con l'indotto, stava per dare la precedenza ad una forma di caccia usata nel Medioevo dall'aristocrazia. Chi la offre una pizza a Franceschini quando viene a Napoli?
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