Campania cinque anni dopo: un bilancio

Mercoledì 27 Maggio 2015, 09:54
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Cinque anni fa in un incontro a Il Mattino con il Direttore organizzammo un confronto tra i due candidati a diventare governatore della Regione Campania: era un confronto che partiva da un dossier con i numeri che fotografavano la crisi della Regione e rispetto a quei numeri chiedevamo idee, progetti, obiettivi da raggiungere ai due candidati. A che punto è la Campania dopo cinque anni? È una domanda dalla quale dovrebbe partire il dibattito anche oggi, anche perché i due candidati sono gli stessi di cinque anni fa. In cinque anni il Prodotto Interno Lordo della Campania è calato del 4,3%: è un calo che, da solo, è riuscito – per alcuni trimestri – a tenere in recessione il Paese. Il tasso di occupazione che, meglio di quello di disoccupazione, fotografa la capacità di un’economia di “includere” è riuscito a scendere sotto il 40%: la Campania su 250 regioni europee (incluso quelle della Romania e della Bulgaria) è l’unica – per la verità insieme a Calabria e Sicilia – ad avere meno di quattro persone occupate su dieci in età di lavoro. Ancora più drammatico è il dato sui giovani che non studiano e non lavorano (i cosiddetti NEET: not in employment neither in education or training)) che è un numero che, meglio del tanto citato tasso di disoccupazione giovanile, da un’idea di quanto capitale umano e, dunque, di futuro un sistema sta bruciando: il 36,4% di coloro che hanno tra 15 e 29 anni e che sono residenti in Campania è ridotto a non fare nulla. E, dunque, ad andare via. Peraltro un altro indicatore preoccupante è quello dei disoccupati di lunga durata: nessun altra Regione italiana ha un’incidenza così alta – 68,7% - tra i disoccupati di quelli che cercano lavoro da più di dodici mesi senza trovarlo: si tratta di 300 mila persone – tendenzialmente anziane – che hanno perso quasi qualsiasi speranza. Sorprendente è, poi, il dato sul turismo: in Campania le presenze di turisti negli ultimi cinque anni per ISTAT si sono ridotte (mentre nel resto del mondo aumentavano del 3% all’anno) e, oggi, la Campania è la penultima regione italiana per numero di turisti (la segue solo il Molise), nonostante il fatto che sia la prima (anche questo pochissimi lo sanno) regione d’Italia (e, dunque, d’Europa) per il numero di siti che sono patrimonio dell’UNESCO. A fronte di queste evidenze si lamenta spesso la mancanza di investimenti pubblici. In realtà all’inizio del 2010 la Regione aveva a disposizione (tra FESR e FSE) 7,7 miliardi di euro di fondi strutturali (ed, infatti, la Giunta precedente degli 8 miliardi riconosciuti alla Regione nel 2007 aveva speso solo 300 milioni). 7,7 miliardi è il 10% del PIL della Campania: una cifra che se fosse stata spesa davvero a “pioggia”, in quote costanti, sarebbe stata sufficiente per far salire (al netto di qualsiasi effetto moltiplicativo) nei cinque anni successivi il reddito pro capite del 2% all’anno, del 10% in cinque anni: ed, invece, lo si diceva all’inizio il PIL è sceso del 5%. Dei 7,7 miliardi, al Febbraio del 2015 (ultimo monitoraggio della Ragioneria Generale dello Stato) la Regione ha speso meno della metà (3 miliardi circa). E, per fortuna, verrebbe da dire, che il governo Monti, con Fabrizio Barca ha, ad un certo punto, tagliato la dotazione finanziaria dei programmi operativi della Campania di 1,7 miliardi che altrimenti sarebbero stati disimpegnati dalla Commissione Europea. Ma non basta. Si aggiungono sui fondi strutturali due ulteriori cattive notizie. La prima è che sempre la Ragioneria generale dello Stato rileva che le altre Regioni del Sud hanno speso di più (a fronte di una spesa rispetto alla dotazione iniziale del 40% in Campania, la Puglia è al 63%, la Basilicata al 76, la Calabria al 47 e la Sicilia al 43) e dunque poco serve invocare i patti di stabilità interni e una condizione generalizzata legata all’idea stessa di essere parte di un Sud abbandonato. La seconda è che la spesa (e gli impegni) ha comunque avuto una fortissima accelerazione nell’ultimo anno (quasi la metà – 1,3 miliardi - della spesa rendicontata alla Commissione negli ultimi cinque anni risulta essere stato “speso” negli ultimi dodici mesi). Ciò espone la regione e le altre amministrazioni locali investiti da un fiume di soldi sbloccato da una accelerazione di spesa al rischio di dover rimborsare tra un anno alla Commissione i pagamenti che la Commissione avrebbe fatto per stati di avanzamento di progetti che dovessero non concludersi o non risultare funzionanti. Questi i dati. Non è detto che il peggioramento sia dovuto esclusivamente a chi ha governato. Così come non è certo che chi si candida al suo posto saprebbe come correggere una situazione così difficile. I numeri dicono, infatti, che chi dovesse avere la “sfortuna” di vincere si ritroverebbe su una montagna di debiti a gestire emergenze esplosive. A capo di una macchina amministrativa – ed è questo, forse, l’elemento di maggiore criticità – che non riesce più a gestire neppure se stessa e ha bisogno di una ristrutturazione radicale. Ma c’è un elemento in più che va oltre i numeri. La sensazione, dall’esterno, è che si faccia fatica a organizzare dibattiti come quello di cinque anni fa. Che la città si sia chiusa in rivendicazioni sempre più senza sbocco. La botte demografica che dovrebbe caratterizzare una società matura, si sta trasformando in una clessidra con pochi giovani, molti bambini e tanti anziani. Tra poco a Napoli rimarranno solo vecchi, poveri ed una classe dirigente (di avvocati e "formatori") che vive di finanziamenti pubblici che, a questo punto, a qualcuno potrebbe sembrare opportuno interrompere. Per rovesciare la clessidra. Per ricominciare daccapo. Sarebbe bello parlare di questo. Se il nuovo governatore non ricomincerà parlando un linguaggio di verità e indicando un progetto che non può essere che di medio lungo periodo, a vincere sarà sempre di più la rassegnazione.
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