Imprenditore coraggio, ma per il ministero è un pentito: «Non lo accetto, preferisco farmi uccidere»

Imprenditore coraggio, ma per il ministero è un pentito: «Non lo accetto, preferisco farmi uccidere»
di ​Mary Liguori
Venerdì 7 Luglio 2017, 13:48 - Ultimo agg. 13:55
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Da testimone a collaboratore di giustizia. Il Servizio centrale di protezione lo inserisce nel programma solitamente destinato ai pentiti di camorra, ma lui, che camorrista non è - «sono incensurato» - rifiuta il nuovo status e, quindi, la protezione. «Preferisco farmi ammazzare piuttosto che cambiare identità e trasferirmi in una località segreta come se fossi un delinquente: voglio continuare a vivere e lavorare nella mia terra e vorrei che le istituzioni mi fossero accanto». Luigi Leonardi è il nipote di un ex camorrista ma ha sempre preso le distanze sia dalla criminalità organizzata che dalla sua famiglia.

Denunce e attivismo pro-legalità: da anni ha le idee chiare e va avanti per la sua strada, ma i suoi progetti cozzano con quanto deciso per lui in sede ministeriale. Dopo l’ultimo episodio denunciato, due proiettili infilati nella cassetta della posta, il Viminale ritiene che sia ancora una volta in grave pericolo. Ma l’imprenditore vuole «una scorta di terzo livello, una macchina blindata e la sorveglianza h24 sotto casa: sono un testimone, non un pentito», tuona. Napoletano trapiantato nel Casertano, ha una storia che lo lega, suo malgrado, ai clan. Ha denunciato nel corso della sua vita una trentina di camorristi per estorsione e per minacce. Diversi i processi che lo hanno visto salire sul banco dei testimoni e puntare il dito ora contro i Bidognetti, ora contro la camorra di Secondigliano, ora contro i Mallardo di Giugliano. Ma è stato nel corso di un dibattimento relativo ai clan dell’area a nord di Napoli che, nel 2016, lo «status» di Leonardi è stato modificato. Per il Ministero non è più un «testimone» ma un collaboratore di giustizia, benché non sia mai stato accusato di alcun crimine e non abbia mai reso dichiarazioni auto-accusatorie. Il perché del sorprendente inserimento nel programma di protezione per i pentiti va ricercato in un processo che si è definito dinanzi al tribunale di Napoli nel 2016. La Dda chiamò a testimoniare Antonio Leonardi, ex affiliato ai Di Lauro nonché zio di Luigi Leonardi. Interrogato dai pm che avevano portato alla sbarra dieci presunti affiliati al clan Abbinante, sette dei quali denunciati da Leonardi, lo «zio» pentito raccontò che la fortuna imprenditoriale del nipote era frutto «del riciclaggio di soldi provenienti dal clan Di Lauro» e spiegò che «Il boss Paolo Di Lauro aveva saputo dell’indagine a suo carico e per evitare i sequestri aveva fatto transitare parte del suo patrimonio sui conti di persone fidate». «Una storia falsa, all’epoca poi avevo solo 16 anni» puntualizza Leonardi. Il processo si concluse però con l’assoluzione dei sette imputati chiamati in causa da Leonardi. Le motivazioni definirono «inattendibile» il testimone. Non c’era la prova delle estorsioni pagate al clan. La procura generale ha appellato la sentenza, tuttavia il processo non è ancora iniziato e questo ha portato alla bocciatura dell’istanza presentata da Leonardi al Consiglio di Stato: in attesa dell’Appello, vige il verdetto emesso in primo grado di giudizio. 

Eppure fu proprio nel corso di quel processo che i pm della Dda dichiararono Leonardi in «pericolo di vita» e chiesero che gli fosse assegnata una tutela. Per questa ragione, dal febbraio 2016 ha una scorta di quarto grado, ma è da solo di notte e quando è in casa. Cionostante sembra intenzionato a portare avanti la sua battaglia di principio. «Della mia incolumità rispondono le autorità tutte, in primis la prefettura di Caserta». Ufficio di governo, nello specifico, con il quale Leonardi ha una partita aperta quasi decennale. Nel 2009 gli incendiarono l’azienda ad Aversa, chiese un risarcimento da mezzo milione di euro, ma l’istanza fu respinta perché l’amministratore della ditta era la sua ex compagna. 
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