«Da 7 mesi con il covid, mia sorella aspetta la stessa cura di Trump»

«Da 7 mesi con il covid, mia sorella aspetta la stessa cura di Trump»
di Mary Liguori
Sabato 10 Ottobre 2020, 08:01 - Ultimo agg. 11 Ottobre, 10:22
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Del numero di tamponi con esito positivo si è perso il conto. Ma di numeri, nella storia della signora Maria Griffo, ce ne sono tanti e, tutti insieme, fanno rabbrividire. Sette mesi con il covid, due ospedali, almeno tre terapie diverse applicate da protocollo, zero miglioramenti. Al contrario, la situazione della cinquantunenne di Lusciano, attualmente in cura all’ospedale Cotugno di Napoli, va peggiorando. «Non riesco più a parlare al telefono, non riesco più neanche a lavarmi i denti». Due sere fa, via chat, invia questo messaggio a sua sorella Anna che, insieme agli altri quattro fratelli, al marito di Maria e alle sue due figlie, vive a distanza l’odissea iniziata ai primi di marzo. 
 
Maria, due tumori alle spalle, sette mesi fa si ricovera all’ospedale Pozzilli di Isernia per degli accertamenti su un tremolio al braccio. La donna in quel momento sta bene: a gennaio ha concluso con successo l’ultimo ciclo di chemioterapia per un cancro all’apparato digerente. Torna a casa da Isernia, dunque, e dopo qualche giorno inizia a sentirsi male. Sua figlia, studentessa di infermieristica, le esegue un test della saturazione: il risultato è allarmante. E poi lei da giorni sente la «bocca amara», ha perso il gusto, non riesce a respirare. Richiede un tampone e le viene eseguito a domicilio. Per due volte e per due volte è positivo. Intanto le sue condizioni peggiorano, ma di ricoverarla sembra non esserci possibilità. «Contattiamo a quel punto il sindaco di Lusciano e grazie a lui, il 26 marzo, mia sorella viene trasferita al covid hospital di Maddaloni», racconta Anna. Sono i mesi bui dell’impennata della pandemia, del lockdown, della ricorsa a una cura che, ad oggi, non è ancora univoca. 

A Maddaloni, dagli accertamenti, Maria Griffo «risulta allergica alla microglobulina, - continua la sorella - per cui le viene detto che non può essere sottoposta alla terapia con il plasma a meno che non glielo doniamo noi fratelli». E qui il paradosso. «Nessuno di noi cinque ha potuto darglielo non avendo avuto il covid e quindi non avendo sviluppato gli anticorpi», spiega Anna. Al Covid Hospital di Maddaloni, la donna viene quindi curata con cortisone e vari anticorpi. «Trova sollievo momentaneo - ricorda la sorella - ma poi sta di nuovo male». A quel punto la famiglia inizia a spingere per un trasferimento ad altro ospedale, ma passano settimane senza che questo avvenga. «Il 30 maggio mio cognato decide di farla trasferire al Cotugno e, sotto la sua responsabilità e a sue spese, prende un'ambulanza e mia sorella si ricovera a Napoli». Da quel momento, nessuna miglioria e i tamponi danno sempre risultato positivo. Ai primi di settembre, Maria viene sottoposta anche a «una cura sperimentale americana. Dura dieci giorni, una volta conclusa sembra avere avuto degli effetti, ma la settimana dopo peggiora di nuovo». 
 


Da quanto riferito dai medici alla famiglia, «Maria ha bisogno di anticorpi monoclonali - dice Anna - i medici le hanno detto che per lei questa è l’«ultima spiaggia», ma sono passati ormai quasi cinque mesi e da luglio è in attesa che le vengano somministrati questi farmaci».

Il caso di Maria, positiva al covid da sette mesi, è più unico che raro. E sembra che in Italia, nelle sue condizioni, «ci sia sono un altro paziente», dice la sorella. Attualmente, con i polmoni seriamente compromessi dal coronavirus, è allettata e attaccata alla macchina per l’ossigeno. Naturalmente, le varie terapie anche a base di cortisone cui è stata sottoposta in questi mesi l’hanno debilitata nel corpo e nella mente. «Era una taglia 42 quando si è ricoverata, oggi è gonfia al punto da portare pigiami taglia 50 ed è molto abbattuta», spiega la sorella. «Abbiamo paura che la situazione precipiti mentre siamo eternamente in attesa di questi anticorpi monclonali: qualcuno ci aiuti».

Al momento, l’anticorpo monoclonale è alla terza fase di studio ed è contenuto in un farmaco prodotto da Regereron, farmaco che il presidente Trump ha definito «una benedizione di Dio». È ancora in fase sperimentale, e tra le altre, proprio in questi giorni, la statunitense Vir Biotechnology e la britannica GlaxoSmithKline hanno annunciato l’espansione globale dello studio di fase III Comet-Ice che valuta l’anticorpo monoclonale Vir-7831 per il trattamento iniziale di covid-19 nei pazienti a elevato rischio di ospedalizzazione». Il trial «sarà esteso su scala globale, in Nord America, Sud America ed Europa». «Vir-7831, noto anche come Gsk4182136 - si legge in una nota delle due aziende farmaceutiche - è un anticorpo monoclonale totalmente umano anti Sars-CoV-2, scelto sulla scorta della capacità potenziale di neutralizzare il virus, uccidere le cellule infettate, offrire un’elevata barriera alla resistenza e raggiungere elevate concentrazioni nei polmoni che rappresentano il principale sito d’infezione. Se il farmaco avrà successo - secondo Vir e Gsk - ha il potenziale per migliorare il trattamento extra-ospedaliero di Covid-19». Per ora, al Cotugno, ci spera Maria Griffo. E, a Lusciano, attendono sviluppi i suoi familiari.

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