Gioielli e patacche. Corni e diamanti. Pietre vere e false, che raccontano storie di fede, arte, alto artigianato, ma anche di scalate sociali. In una mostra piccola e intensa, allestita nel museo del Tesoro di San Gennaro, all’interno del duomo di Napoli, composta solo da tre pezzi: unici e, per la prima volta, riuniti grazie all’intuizione di Laura Giusti, la curatrice, un’ex funzionaria della sovrintendenza che ha voluto esporre insieme «Tre collari».
«Uno è stato quasi dimenticato per secoli, “offuscato” dallo splendore dell’altro, ma appare il più bizzarro e originale», dice Giusti, spiegando che «rivela il tentativo di farsi notare compiuto da Giovan Francesco e Anna Lucrezia Spera: i loro nomi sono incisi sul retro dell’ornamento, in evidenza, anche se non si trova nemmeno una traccia della famiglia nei documenti della nobiltà di allora...».
Veri aristocratici o intraprendenti parvenu? Rimane il dubbio. Di certo, i due riescono nell’impresa: sono ricordati a distanza di oltre 300 anni. Non importa che le pietre arancioni siano false: particolare ed elegante è la linea di perline. «Ma, soprattutto, la mossa geniale è quella di far realizzare un secondo collare per il busto di San Gennaro con i loro gioielli che, altrimenti, sarebbero stati poi squagliati come gli altri per coprire i costi e far realizzare la mitra.
Esaltato dal fondo nero e protetto dal vetro infrangibile, il più prezioso colpisce per la grande bellezza, e permette di apprezzare da vicino il gusto raffinato e l’arte orafa dei maestri artigiani al lavoro nel Seicento, e poi per secoli impegnati ad aggiungere e montare nuove pietre preziose sui modelli originali, rinnovando simmetrie e disegni. «Il collare solenne ha valore inestimabile e rende tangibile la captatio benevolentiae ricercata con i doni dai sovrani che si sono avvicinati e persino da Giuseppe Bonaparte, non proprio religioso» sorride Giusti, puntando il dito su un bottone e una croce con 63 brillanti portati nella cappella del duomo da Maria Amalia di Sassonia (giovanissima sposa di Carlo di Borbone) o sugli zaffiri e i brillanti consegnati al sacrestano, personalmente, da Francesco I accompagnato dalla moglie e dai figli. Senza trascurare, nella affascinante narrazione, l’aneddoto irriverente sugli smeraldi e i diamanti, omaggio di Maria Cristina di Savoia quattro giorni dopo il matrimonio con Ferdinando II, descritti sempre come «savigné» negli inventari: «Ma con l’erronea trascrizione della parola “sévigné”, forse per le origini francesi della principessa», ipotizza la curatrice che per un anno ha scavato negli archivi e rivisto anche le date della prima commissione dell’opera. A questi monili si aggiungono, infatti, le pietre acquistate, per prime, dalla Deputazione tra cui diamanti di durezza inconfondibile: sono gli stessi, fatti arrivare dalla Colombia, che adornano la mitra, posizionata di fronte agli ornamenti, al centro della sala, dove alto e basso, ricchezza e povertà, dolore e gioia, si fondono.
L’ultimo collare, definito il più tenero, trasferito dal museo diocesano, rivela la profonda devozione del popolo per San Vincenzo Ferrer, detto «’o Munacone»: secondo la tradizione, con i suoi poteri taumaturgici in grado di fermare l’epidemia di colera del 1836-37; ricompensato con anelli sottili e grosse patacche, orologi da taschino, ciondoli a forma di cuore, un corno portafortuna, argenti e ori questa volta di modesto se non scarso valore, ma dal significato simbolico. E la gente oggi continua a lasciargli i suoi tesori, invocando la grazia o come segno di ringraziamento. Il culto si rinnova, è antico e contemporaneo. E così si ritrovano, l’uno accanto all’altro, la creatività, i drammi, la vitalità, i blasoni della città: il suo «corpo» e l’anima, la fede e la ragione. La mostra è in programma fino al 14 maggio con un’eccezione: il 5 aprile resterà senza uno dei tre collari. Quello di San Vincenzo Ferrer verrà esposto sul busto, in occasione della processione.