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Colette, genio e lussuria di una scrittrice-Lolita

A 150 anni dalla nascita il mito resiste

di Francesco Mannoni
Articolo riservato agli abbonati
Venerdì 27 Gennaio 2023, 08:39
4 Minuti di Lettura

«Voi non potete immaginare la regina della terra quale ero io a 12 anni. Solida, la voce aspra, due trecce troppo strette che mi fischiavano intorno come fruste: le mani rovinate, graffiate, segnate da cicatrici, una fronte di ragazzo che tuttora nascondo fino alle sopracciglia... Ah, come mi avreste amata, quando avevo 12 anni e come mi rimpiango». Queste frasi fanno parte dell'autodifesa che Sidonie-Gabrielle Colette (Saint Sauveur-en-Pujsaye 28/01/1873 Parigi 03/08/1954) ha pronunciato più volte, sostenendo che i romanzi con protagonista la scandalosa Claudine, non erano autobiografici. Non smentì però il fatto che il giorno del quindicesimo compleanno fu costretta ad indossare una lunga gonna: i suoi polpacci torniti attiravano troppo gli sguardi degli uomini.

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Centocinquant'anni dopo la sua nascita resiste ancora il mito di Colette: trasgressiva diva del music-hall, mantide religiosa che affondava negli amanti denti ingordi di vita, seconda donna nella storia della repubblica francese a ricevere funerali di stato (la prima era stata Sarah Bernhardt), spesso nuda durante le sue esibizioni, critica teatrale e cinematografica, giornalista e caporedattrice, estetista. Ma la scrittrice merita ancora di essere letta? Per Giuseppe Scaraffia, docente di Letteratura francese all'università di Roma, «lei è stata una grande piccola romanziera. Non una cima, ma aveva una scrittura eccezionale, sensuale, tattile, che le ha consentito di tradurre il mondo sintetizzandolo in un approccio per golosità».

Insomma, 150 anni dopo è ancora Claudine a dettare legge, a tener viva l'attenzione su un fenomeno letterario così lontano. «In Colette genio e lussuria coincidevano totalmente», riflette il francesista: «Il suo appetito era famelico, degno di un approccio voluttuoso alla vita. Una voluttà che conosceva cadute malinconiche».

Per Scaraffia la sua libido letteraria fu scatenata dal primo marito, Henry Gauthier-Villars, «aveva tenute nascoste le relazioni saffiche avute con compagne di scuola, con lui, un impresario della cultura, capì che lo scandalo poteva giovare moltissimo alla carriera». Trentaquattro i suoi romanzi: «La sua opera è importante, nella sua figura si sono identificate a lungo le francesi e le donne europee. È stata un'antesignana della moderna donna spregiudicata, è diventata sempre più affascinante man mano che la sua vita si faceva più scandalosa». Antifemminista eppure protofemminista, ha avuto tre mariti (il secondo fu il barone, direttore di giornali e futuro senatore Henry de Jouvenel, che poi tradì con il figlio diciassettenne, il terzo Maurice Goudeket, un commerciante di perle), una figlia, un negozio: «È stata una Lolita che scriveva. In alcune foto da giovanissima si travestiva per accentuare l'aspetto da bambina. Ma nei suoi album fotografici la vediamo anche travestita da uomo, da ballerina stile Mata Hari e da crocerossina. Era profondamente eccentrica e piena di manie: non usò mai calze, anche d'inverno girava con i sandali comprati a Saint Tropez. Non andò ai funerali della madre, ma si mangiò una cosa buona: il cibo era una delle ossessioni», ricorda il professore.

Centocinquant'anni dopo, la sua figura richiama quella di Simenon: «Come lui era estranea al mondo letterario ufficiale, come lui parlava ad un pubblico reale. Anche Proust rimase colpito dalla sua libertà espressiva. L'autore della Ricerca del tempo perduto era molto interessato al mondo saffico e perciò frequentava Colette, difendendola nei salotti in cui lei si comportava in modo scandaloso», continua Scaraffia per cui Colette aveva «la ferocia spontanea della natura. Gli ultimi tempi, divorata dall'artrosi, li spese su un grande letto con accanto il telefono, i gatti, i libri. Ma continuò fino all'ultimo ad andare a mangiare al ristorante sotto casa, se non riusciva ad alzarsi si faceva portare i pasti in camera. Continuò ad essere curiosa e aperta, a sentire gli amici, a scrivere, a costruire fino alla fine il monumento di se stessa». Ai suoi funerali, un altro grande eccentrico, Jean Cocteau, mandò la sua cameriera che si presentò dicendo: «Sono qui a piangere la signora Colette per conto del signor Cocteau». Tra i suoi estimatori c'era anche André Gide, che letto il suo romanzo Cherì, scrisse: «Da un capo all'altro del libro, non un cedimento, non una ridondanza, non un luogo comune». E, ancora: «Che splendido argomento è quello che ha scelto! E con quale intelligenza, padronanza e conoscenza dei segreti meno confessati della carne». La signora della carne, eccolo il giusto ricordo di Colette, 150 anni dopo.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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