Elisabetta Montaldo si mette a nudo nel suo ultimo romanzo, “Calipso” (Baldini & Castoldi), in cui ripercorre tutta la sua vita fin dall’infanzia. Nata a Genova ma innamorata di Procida dove attualmente vive, ha speso la sua vita lavorando nel mondo dell’arte, come pittrice e costumista cinematografica, collaborando, tra gli altri, con Giuseppe Tornatore, Marco Brambilla e Bigas Luna e vincendo due David di Donatello.
Questo romanzo è diverso rispetto ai precedenti, scava nella sua memoria. Un’operazione complessa?
«Avevo timore ad affrontare il mio passato, ma ho ascoltato la voce del mio santo protettore letterario.
Perché ha deciso di utilizzare Calipso come pseudonimo?
«Volevo che il nome della protagonista risultasse un po’ ambiguo. Calipso è un luogo geografico, la fossa abissale più profonda del mondo, lungo la costa meridionale del Peloponneso, è la ninfa figlia di Atlante nella mitologia classica, che nell’“Odissea” si innamora di Ulisse, ed è anche una danza africana. Mi ha dato anche la possibilità da scrittrice della storia, di raccontare di Calipso come di una ragazza di cui tutti si innamoravano, ma che nessuno sceglieva. Insomma, un nome che racchiude in sé molti mondi e che mi ha permesso di dare libero sfogo a qualsiasi digressione durante il racconto».
Ci sono stati dei momenti in cui ha esitato raccontando certi dolori, certe intimità?
«Uno scrittore deve sempre raccontare la verità, penso sia essenziale per il suo lavoro. La verità può essere raccontata in molti modi diversi (piagnucolando, drammatizzando, ironizzando, ecc.) ed ognuno, d’altro canto, la interpreta come crede».
Dunque, il racconto è totalmente aderente alla realtà?
«Ho dedicato particolare attenzione alla descrizione dell’infanzia di Calipso, il resto più o meno si basa su una ricostruzione antropologica che interpreta liberamente la mia storia, ma i ricordi più importanti, che influenzano poi la tua intera esistenza si annidando nell’infanzia, quindi è quella la parte più personale del racconto».