«Smettila di suonare, Sam». Francesco Pinto ribalta l'indimenticata struggente richiesta di Ilsa Lund-Ingrid Bergman al pianista di Casablanca e avvia così il racconto che svilupperà in Gli strani casi del Club 22, la sua nuova prova narrativa e la prima dichiaratamente con la cifra del romanzo giallo (HarperCollins, pagine 314, euro 18,50). Certo, nonostante il locale notturno del quartiere di Bagnoli nel luglio del 1962 non sia precisamente il Rick's Café immortalato dal film di Michael Curtiz né nelle notti napoletane si intraveda il profilo di un Rick Blaine - Humphrey Bogart, lì comunque si respira un'atmosfera densa ed elettrica di avventura e mistero, di trame e intrighi. Il fatto è che si trova suo malgrado al centro di una specie di piccola Svizzera napoletana, tra la grande base Nato e l'immensa acciaieria dell'Ilva - «da un lato gli uomini che difendevano l'Europa dal bolscevismo, dall'altro quelli che speravano che il sol dell'avvenir splendesse sul mondo intero; da una parte i soldati che marciavano a passo cadenzato, dall'altro gli operai che sfilavano con il pugno alzato» -, in una collocazione dove la mappa geopolitica del Mediterraneo nell'era della guerra fredda incrocia particolari e assai suggestive rotte antropologiche che partono da un passato antico e sviano su un presente di esuberante e problematica vitalità.
Il Club 22, insomma, è un prodotto del suo tempo e ne registra contraddittoriamente gli effetti.
Si chiama Giovanni Ramaglia, si capisce presto che si mette al suo triste posto per motivi che hanno poco a spartire con le canzoni di Sam e gli spogliarelli di Lucy. Nel locale viene per altro. Per essere notato nella sua diversità. Per chiedere aiuto. «Negli scacchi l'apertura è la mossa più importante», sentenzia il Cavaliere.
Così parte la progressiva trasformazione della congrega del Club 22 in un manipolo di investigatori alla Marlowe, di combattenti coraggiosi alla Robin Hood e Fra Tuck. Pinto li caratterizza recuperando elementi e toni dal registro picaresco che due anni fa aveva mostrato di possedere in Ci manda San Gennaro e costruisce così una storia che, disponendosi da un lato sul livello interno delle vicende e delle psicologie dei personaggi animatori nel night e dall'altro spaziando in una città che fa emergere spunti di naturale teatralità, è scandita da colpi di scena e sorprese come ogni rodato meccanismo del giallo richiede. Qui con un valore aggiunto.
Perché non in tutte le città degli intrighi e dei misfatti funziona una rete più o meno sotterranea di informatori formata dalle repliche curiose e pettegole dell'«homo guardiolis», i portieri degli stabili i quali da Posillipo al Rettifilo ostentano una memoria profonda e una capacità informativa che «attraverso la tradizione orale, così come era avvenuto per l'Iliade e l'Odissea, conservava la storia dell'intera città». Perché non in tutti i romanzi di genere si può vantare un catalogo di partecipazioni straordinarie che va da Peppino Di Capri a Claudio Villa, da Fausto Cigliano al trio Bennato, da Brigitte Bardot a Renzo Arbore con sconfinamenti a Raffaele La Capria e Ferdinando Ventriglia.
Perché Pinto riesce a maneggiare le congiunture della Storia chiamando in azione i militari e l'intelligence della Nato e gli operai e la commissione interna dell'Ilva. Perché nonostante la scacchiera che accoglie le successive mosse disegni le caselle di morti, ruberie, sopraffazioni, violenze, strozzinaggi e camorrie, spionaggi e intrecci internazionali, in Gli strani casi del Club 22 a diventare protagonista è la Napoli della bellezza prorompente di Lucy, l'Afrodite della sequenza proibita ma carica di intensa umanità, artista di se stessa nella sua ingenua ambiguità che riempie l'immagine simbolo di questo racconto.