Carlo Cassola e la Trilogia atomica: quando la letteratura aveva paura della bomba

Non c'è alcuna possibilità di sfuggire alla distruzione se gli individui non capiscono la realtà e non ne diventano responsabili

Carlo Cassola e la Trilogia atomica: quando la letteratura aveva paura della bomba
Carlo Cassola e la Trilogia atomica: quando la letteratura aveva paura della bomba
di Giuseppe Montesano
Venerdì 23 Giugno 2023, 07:00 - Ultimo agg. 17:22
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Solo da quando la Russia di Putin ha invaso l'Ucraina con una guerra infame e mentre sposta i missili a testata atomica vicino all'Europa, all'improvviso si è ricominciato a parlare di disastro nucleare. Eppure, non riusciamo a riflettere sul serio su una possibile distruzione dell'umanità: perché? Siamo disabituati a ragionare su una questione che ci sembra lontanissima dall'ottimismo in cui sguazziamo: per questo, capitandomi tra le mani un bel libro di Carlo Cassola intitolato Trilogia atomica appena pubblicato negli Oscar Mondadori, ho avuto un sussulto.

Il libro raccoglie tre modernissimi romanzi di Cassola usciti tra il 1978 e il 1982 incentrati sulla distruzione atomica: modernissimi perché prima di La possibilità di un'isola di Houellebecq, e addirittura con un cane come personaggio, Cassola costruisce nel Superstite un crudo ma poetico mondo post-distruzione; perché in Ferragosto di morte fa saltare i confini tra romanzo, autobiografia, saggio; e perché, in Il mondo senza nessuno, le cose stesse diventano i personaggi.

Ma il sorprendente Cassola che raccontava la fine dell'umanità non fu capito: negli anni Ottanta trionfano la leggerezza postmoderna, le feste degli yuppies e l'illusione che il mondo va verso un felice progresso.

Eppure, proprio in quegli anni, anche uno scrittore realistico come Moravia faceva presente che la catastrofe atomica era possibile, e nel 1986 scriveva L'inverno nucleare: convinto che il problema non fosse solo nella politica o nella tecnica, ma nella coscienza dell'uomo e nella sua cattiva cultura.

Poco prima Paolo Volponi aveva scritto il grandioso Corporale, nel quale un personaggio «picaresco» era tormentato dalla paura della Bomba, e si rifugiava negli Appennini per costruirsi un rifugio anti-atomico.

E prima di loro Elsa Morante, nel suo Pro o contro la bomba atomica, aveva scritto che se il fiore della civiltà greca era stato Platone, e il fiore della civiltà del Rinascimento erano state le madonne di Raffaello, allora il fiore della nostra civiltà era la bomba atomica, nata dalla smania «omicida e suicida» di una società fatta di persone meschine che avevano accettato come normali i totalitarismi e i campi di concentramento. Ah, l'incredibile Elsa! Il «pericolo» insito in una guerra mondiale di genere nuovo, distruttiva fino al tracollo dell'umanità, è stato quindi molto presente fino a pochi decenni fa: ma non è stato davvero elaborato, non è stato davvero pensato.

Il Cassola della Trilogia atomica dice che non c'è nessuna possibilità di sfuggire alla distruzione se gli individui non capiscono la realtà e non ne diventano responsabili, e che la globalizzazione non deve essere politica ma umana: solo se i singoli esseri umani sono al centro delle scelte, consapevoli, si potrà sottrarsi alle catastrofi. Insomma per lui la politica e le sue scelte dovrebbero essere sottomesse alle scelte dei cittadini, degli individui.

Era troppo ingenuo Cassola? Era troppo vecchio Moravia? Era troppo pessimista la Morante? Mah. Il fatto è che gli scrittori, in anni appena alle nostre spalle, erano agitati da problemi essenziali, si pensi solo a Silone prima e a Pasolini poi, ma a partire dagli anni Duemila sono stati sommersi da una sorta di frivolo oblio in cui si è dato per scontato che i problemi della Modernità fossero superati: o, peggio, che li avrebbero risolti tecnica, economia e politica. 

Il punto di vista dei grandi scrittori italiani prima del Duemila partiva dal presupposto che per capire il mondo e agire servono l'antropologia, la psicologia, la sociologia, la storia, la scienza, l'arte e la letteratura, e che la politica era ormai il collettore delle pulsioni animali ed era asservita, insieme alla tecnica, all'economia.

Nel misterioso Il diavolo non può salvare il mondo, Moravia raccontò il patto col diavolo di uno scienziato che pensa di realizzare i suoi desideri grazie al diavolo avendo in cambio la possibilità di fare il bene degli uomini: quindi il diavolo, il male, può favorire il bene? Ma no, si tratta di un'illusione, e Moravia conclude con queste parole: «Il diavolo può fare e far fare tutto tranne il bene. E chi si illude di possederlo alla fine abbraccia il nulla». Nel 1983 Moravia fu quasi irriso per il suo racconto, ma chi rideva allora, e oggi sottovaluta i patti con il diavolo, è davvero una persona «concreta» o ha solo smesso di pensare?

E Silone, Pasolini, Moravia, Cassola, Morante eccetera erano superati dalla «realtà», o siamo noi sottomessi e asserviti alla «realtà»? La domanda, forse, dovremmo farcela... 

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