Bachmann a Napoli, versi nati dalla neve

Nuova edizione de "Invocazione dell'orsa maggiore"

Ingeborg Bachmann
Ingeborg Bachmann
di Ugo Cundari
Domenica 12 Novembre 2023, 10:14
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Ingeborg Bachmann (Klagenfurt am Wörthersee, Austria, 25 giugno 1926- Roma, 17 ottobre 1973) si trasferì a Napoli nell'inverno 1956, uno dei più freddi per la città, sulla quale cadde una nevicata straordinaria. La poetessa austriaca a Villa Rotondo, in via Bernardo Cavallino, fu ospite del compositore Hans Werner Henze. Occupavano un piano intero, con molto spazio e molta luce, il riscaldamento non funzionava e in più, ricordava, «niente luce, niente acqua, tutte quelle inezie che pian piano uccidono una persona».

Ma Bachmann era donna forte e ogni mattina, raccontava il suo coinquilino, scendeva a spalare la neve fuori del portone.

Quando tornava di sopra, con le dita irrigidite, scriveva Canti lungo la fuga, con versi come «Freddo come non mai è penetrato./ Volanti commandos giunsero dal mare./ Con tutte le luci il golfo si arrese./ La città è caduta. / Innocente e prigioniera/ nella sottomessa Napoli,/ dove l'inverno/ pone sul cielo Vomero e Posillipo», versi che faranno parte della raccolta Invocazione all'Orsa maggiore appena pubblicata da Adelphi (pagine 372, euro 24) in una nuova edizione ricca di appendici e note critiche inedite di Hans Höller e Luigi Reitani in cui si citano lettere, documenti e testimonianze sconosciute o poco note sull'autrice.

La Bachmann che spalava la neve di Napoli era una donna «abbandonata nel mezzo di un paesaggio invernale. Al freddo vengono attribuite azioni caratteristiche di una brutale truppa di occupazione» scrive Reitani, riferendosi alle suggestioni che Bachmann non può non aver colto in una città che pochi anni prima si è ribellata agli occupanti nazisti. Ecco allora che nelle poesie una voce fa appello ai napoletani perché liberino la «città speziata» dalla «neve». E per farlo, i cittadini dovrebbero riaprire le proprie ferite, forzare le «lividure». Napoli è suprema metafora della relisienza e, come gran parte del Meridione, luogo di iniziazione all'eros, porta attraverso la quale si può scendere nel mondo ctonio. Bachmann conosceva e amava gli studi etnologici di Ernesto de Martino.

Un paio di anni prima di trasferirsi a Napoli, Bachmann soggiornò a lungo a Ischia, sempre ospite di Henze che in una lettera ricordava: «Arrivò una domenica, nel giorno della grande festa di San Vito a Forio. Andai a prenderla al porto e l'accompagnai alla piccola casa saracena che avevo affittato per lei, di fianco alla mia. Le piacque. Dalla sua terrazza lo sguardo si perdeva sui vigneti in fiore, fino alle gole e ai pendii del bellissimo monte Epomeo». Iniziarono ad esplodere i fuochi d'artificio in piazza e Bachmann si mostrò curiosa di capire quanto sarebbero costati alla comunità. Una amica di Henze le rispose che non si trattava di niente di speciale, «una volta la festa deve ben arrivare!», frase che poi divenne il verso iniziale di un canto di danza e di processione che fa parte della raccolta di poesie.

Se c'è un filo che accomuna le lettere di Bachmann da Ischia prima e da Napoli poi è una profonda riflessione sulla condizione della scrittrice. Si lamentava della precarietà della sua esistenza e delle difficoltà a farli largo in un mondo come quello culturale dominato dagli uomini. In una lettera a William Shott scrisse: «Riuscire a permettermi una stanza, a pagare regolarmente l'affitto e tutto il resto a volte è davvero troppo. Vorrei scrivere sotto la pressione di una scadenza, uno scrivere al doppio del prezzo, come pure hanno dovuto fare tanti uomini, spendendo a loro volta parecchie energie».
 

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