Saranno contenti gli ecologisti di sapere che nell'antica Roma gli alberi erano rispettati, ammirati e venerati come oggi il più sofisticato software di intelligenza artificiale. Perché tutte le risposte ai quesiti importanti dell'epoca venivano ricercate all'ombra di palme, cipressi, noci, allori, fichi, prugni, viti, querce, cornioli. Ai loro piedi si pregava, sotto i loro rami gli indovini ponevano i quesiti più urgenti, la loro forza si prendeva a modello per resistere alle asprezze dell'esistenza. Se un giorno era fortunato o meno dipendeva dal rigoglio di quella pianta, dalla crescita di quella chioma.
Sarebbero contenti di tornare ai tempi antichi gli ecosessuali, quelli che oggi fanno sesso con gli alberi strusciandosi contro i tronchi, i «dendrofili» direbbero in psichiatria, ricordando il numero importante di donne che negli ultimi anni si è segnalata su questo fronte. Secondo Plinio il vecchio, 23-79 d.C., il mondo vegetale è costruito sull'attrazione sessuale, sull'avidità del coito, che offre piaceri e intensità maggiori rispetto a quello tra esseri umani.
Nella cultura romana gli alberi, oltre a un impiego come materiale da costruzione, avevano una funzione culturale fondamentale, «erano buoni da pensare e al tempo stesso buoni per pensare, nel senso che essi si prestavano a giocare una pluralità di ruoli e a svolgere una vasta gamma di funzioni diverse in ambiti molteplici» scrive il latinista napoletano docente a Siena, Mario Lentano, che diventa un «fitoantropologo» per firmare Vissero i boschi un dì (Carocci, pagine 252, euro 24), saggio, il cui titolo riprende un verso di Leopardi, dallo stile divulgativo che tra centinaia di citazioni letterarie racconta un mondo complesso da un'angolazione suggestiva.
Tutti i grandi poeti dell'antichità hanno avuto un rapporto privilegiato con un albero o una pianta, o hanno vissuto una esperienza iniziatica. Spesso «le sorti di un individuo d'eccezione appaiono strettamente legate a quelle di un albero altrettanto straordinario». Orazio racconta in un celebre carme che un giorno, da piccolo, si perse in un bosco, fu trovato sano e salvo con il corpicino rivestito da fronde di mirto e lauro. Romolo aveva caro il mirto, il suo nume tutelare, e per associazione di tutta Roma. Virgilio il pioppo - come Vespasiano, Tito e Domiziano - e Giulio Cesare la palma, Augusto l'alloro. Ercole, prima di scendere nel regno dei morti per portare alla luce il cane a tre teste Cerbero, si cinse il capo con una ghirlanda di pioppo bianco. Insomma, la cultura romana, e in generale quella antica, «si sono spinte molto avanti nella percezione e nella ricerca delle tracce umane nelle piante e delle tracce vegetali negli umani».