La linguista Fabrizia Giuliani: «Calcio femminile? Cambiamo le parole anche in campo»

I termini ancora declinati al maschile. La linguista docente all’Università La Sapienza: «Il linguaggio si adegui all’uso. Più forte saranno la presenza e il protagonismo femminile, minore sarà la discriminazione nelle parole»

Fabrizia Giuliani, professoressa di Filosofia del linguaggio e studi di genere all’Università La Sapienza di Roma
Fabrizia Giuliani, professoressa di Filosofia del linguaggio e studi di genere all’Università La Sapienza di Roma
di Alberto Gentili
Mercoledì 21 Febbraio 2024, 12:23 - Ultimo agg. 28 Febbraio, 15:40
5 Minuti di Lettura

Il linguaggio si adegua ai tempi e all’uso.

Più forte sarà la presenza e il protagonismo delle donne nel calcio, minore sarà la discriminazione linguistica». Fabrizia Giuliani, professoressa di Filosofia del linguaggio e studi di genere all’Università La Sapienza di Roma, vede... rosa. Giuliani è convinta che, «come è accaduto in altri settori», anche nel mondo del pallone si affermerà la declinazione al femminile dei nomi.
Però nel calcio delle donne, nonostante la sua esplosione, il linguaggio è ancora quasi tutto al maschile. 
«La lingua italiana negli ultimi decenni è cambiata moltissimo grazie al protagonismo sempre maggiore delle donne. Come diceva il grande filosofo tedesco Wittgenstein, il significato di una parola è nell’uso che ne fanno i parlanti. Ora le donne ricoprono sempre più ruoli apicali nella politica, nella scienza, nella cultura, nella società e per fortuna le cose sono cambiate: abbiamo una presidente del Consiglio, molte ministre, molte sindache. Parole che fino a venti-trenta anni fa erano contese, avvertite come eccentriche o sulla cui legittimità si discuteva. Ciò non accade più. Non è un caso che nel vocabolario Treccani indichi per ogni parola il maschile e il femminile».
Nel calcio si è ancora un po’ indietro. È una forma di discriminazione linguistica?
«Certamente. Nel 1986 per la prima volta uscì un libro commissionato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, si chiamava: “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua”. E spiegava come evitare forme di discriminazione nel linguaggio. Ma mentre in settori come l’insegnamento è uso comune usare professoressa o maestra, c’è voluto più tempo ed è stato più difficile affermare l’utilizzo di parole come ministra, sindaca, deputata. Si è detto che erano termini cacofonici. Che ministra, ad esempio, suonava come minestra. Ma erano pseudo ragioni, nascondevano forme di discriminazione e la difficoltà di accettare un cambiamento di natura sociale, culturale, politica. Non solo, questa resistenza a femminilizzare i nomi aveva e ha a che fare con la libertà: non si deve rinunciare alla propria identità di donna. Una mia collega di Modena, Cecilia Robustelli, ha uno slogan bellissimo: “Ciò che non si dice non esiste”. E se non posso dire che c’è una calciatrice o una ministra, sto negando che sia compatibile quel tipo di sport o di lavoro con l’identità femminile. Sto dicendo che quando una donna fa certe cose è come se cessasse di essere una donna».
Il calcio è sempre stata una faccenda esclusivamente maschile, forse per questo è più difficile la femminilizzazione del linguaggio calcistico? 
«Direi di sì. In tutti i settori appannaggio maschile la femminilizzazione è più complessa. Sono come fortini inespugnabili. Ma se si accetta che giocano a calcio anche le donne, se il fenomeno del calcio femminile diventerà sempre più vasto, pian piano il fortino cadrà. Mi auguro che alla fine si dirà “partita di calcio” anche quando a giocare sono le donne, mentre ora si dice “calcio femminile”. Del resto la lingua è democratica: chi decide è l’uso. Neppure nelle peggiore dittature si possono imporre termini dall’alto. E sono certa che tanto più si affermerà il calcio femminile, tanto più si femminilizzerà anche la lingua». 
I telecronisti faticano a usare la parola arbitra, si buttano su arbitro o arbitro donna. È grave? 
«Sì. Non se ne vede la ragione. E tantomeno si capisce perché si debbano usare due parole: basta arbitra, va benissimo. La lingua ha tutte le risorse per accompagnare il cambiamento, siamo noi che abbiamo pregiudizi e non riusciamo a immaginare soluzioni linguistiche che invece sono semplici e davanti ai nostri occhi». 
C’è anche il caso della portiera: viene usato il termine portiere per non creare confusione con le addette alla custodia degli stabili. Come se ne esce? 
«Ha presente le equazioni? Portiere o portiera sono come segretario o segretaria per un leader politico. E come è ormai uso comune chiamare Elly Schlein segretaria, così si deve chiamare portiera l’atleta che difende la porta di calcio. Il cambiamento è anche imparare a usare la lingua in modo da farla aderire al mondo che cambia». 
Come la mettiamo con difensore o difensora e con terzino o terzina?
«Si usi il femminile. È semplicissimo. La lingua, ripeto, offre tutte le soluzioni». 
Però le calciatrici non aiutano: quando sui calci piazzati si decidono le marcature si sente gridare “a uomo! a uomo!”. Lei cosa griderebbe?
«A donna! A donna! Bisogna vincere l’abitudine nell’uso dei termini maschili.

Oppure, mi conceda una battuta, si marchi a zona».

© RIPRODUZIONE RISERVATA