Crisi di governo, la chimera delle Zes: un'altra occasione perduta per il Sud

Crisi di governo, la chimera delle Zes: un'altra occasione perduta per il Sud
di Nando Santonastaso
Giovedì 28 Gennaio 2021, 11:00 - Ultimo agg. 14:15
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Dice Umberto Masucci, presidente del Propeller Club, l'Associazione che riunisce in Italia quanti a partire da armatori e industriali si occupano a vario titolo di navigazione e trasporto marittimo, che Shenzhen, in Cina, prima di diventare una metropoli da 16 milioni di abitanti e soprattutto la più importante Zona economica speciale del mondo, era un villaggio di pescatori. Facile, gli si può obiettare, visto che di mezzo c'è un sistema politico ed economico a senso unico che sulle sue scelte, giuste o sbagliate che siano, non ammette repliche o distrazioni. Ma Masucci non parla di Shenzhen a caso: «Quello che a mio parere emerge a proposito della lentezza con cui si sta cercando di far decollare le Zes nel Mezzogiorno è proprio l'assenza di una strategia del Paese», dice. E cita un altro, inequivocabile esempio, quello di Tanger Med, il super porto marocchino diventato la tappa obbligata per gran parte dei trasporti sul Mediterraneo e su cui la Cina, manco a dirlo, ha scommesso fortissimo. Marocco, ovvero poche miglia dalle coste italiane, ma un Paese, insiste Masucci, «che ha investito il 20% delle proprie risorse sul sistema portuale e i risultati si vedono». E qui il discorso sulle Zes meridionali rischia di chiudersi perché se il Propeller Club è arrivato a proporre l'istituzione di un ministero del mare nel nostro Paese, spiegando che da noi ci sono 8mila km di coste e che la Cina ne ha 14mila, non molte di più cioè, vuol dire che c'è davvero bisogno di una strategia per assicurare alle Zone economiche speciali e più complessivamente al sistema portuale meridionale (ma forse non solo) ben altra prospettiva.

In effetti, più di tre anni e un'infinità di annunci dopo, è ancora molto complicato capire quando e come le Zes diventeranno una certezza per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Di Zone economiche speciali si continua a parlare in tutte le salse, e sicuramente molto di più da quando si è insediato il governo giallorosso che di ministri meridionali ne ha a profusione. Ne parla non a caso anche il Piano Sud 2030 del ministro Provenzano, vi si accenna o poco più nel Pnrr, vi si fa riferimento in dibattiti, webinar e meeting. Non sono mancati per la verità anche atti molto più concreti come il taglio del 50% per sei anni dell'Ires in favore delle imprese che investiranno nelle Zes del Mezzogiorno a condizione che non licenzino nessuno per lo stesso periodo, sgravio introdotto dalla legge di Bilancio 2021 grazie all'iniziativa del deputato pd campano Piero De Luca e di altri suoi colleghi. Non si può nemmeno negare che qualche cosa si è mossa in questi anni a livello di investimenti, previsti dal credito d'imposta della legge, ancorché insufficiente (il gruppo Gallozzi nel porto di Salerno, quello calabrese di Pippo Callipo a Gioia Tauro). Eppure la sensazione che le Zes non siano ancora il perno, persino inevitabile, di un sistema di crescita del Sud, resta.

Il perché è una risposta multipla. «La sburocratizzazione non sta funzionando anche se è uno dei pilastri necessari a velocizzare e dunque a rendere credibili fino in fondo le Zes. Non dimentichiamo poi che dopo un anno come il 2020, con il blocco pressoché totale di ogni iniziativa economica, pensare che si potesse investire anche dall'estero nei porti e retroporti del Mezzogiorno era francamente un'illusione», prova a ragionare Giovanni Sgambati, segretario regionale della Uil campana. E aggiunge: «Di fronte alle incognite sui tempi della giustizia civile quale investitore straniero punterebbe ad occhi chiusi sulle Zes?». Non ha peraltro torto lo stesso Pietro Spirito, agli ultimi giorni di presidenza dell'Authority del Tirreno centrale, quando a proposito della Zes campana, la prima ad essere approvata, osservava «che stiamo facendo da cavia perché in Italia le Zes sono di fatto una novità assolta». Giusto, ma le domande fioccano lo stesso: si possono ad esempio immaginare Zes competitive senza un'adeguata dotazione infrastrutturale (si pensi all'Alta velocità ferroviaria, soprattutto) che permetterebbe ad esempio alle merci di risalire la Penisola una volta sbarcate a Goia Tauro o a Taranto? E si può pensare di attrarre investitori stranieri, multinazionali in testa, se in Europa a differenza del Marocco o della stessa Turchia, non è prevista una tassazione zero e in Italia, poi, si deve comunque verificare se c'è la giusta capienza (ovvero, le risorse) tra i fondi cui dà accesso l'Agenzia delle Entrate attraverso il credito d'imposta?

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Insomma, si procede ancora a strappi sulle onde delle Zes. Come a proposito della nomina da parte del governo dei supercommissari chiamati a sveltire processi burocratici e operativi a dir poco complicati. Finora ne sono stati nominati due, uno per la Zes di Gioia Tauro, e un altro per quella Jonica. Serviranno davvero? Il ministro Provenzano ci crede, cogliendo nella necessità di questi nuovi coordinatori la risposta alle ridondanze organizzative imposte dalla legge alla gestione delle Zes. Ma i tempi della politica quasi mai sono identici a quelli delle imprese. O a quelli immaginati dalla riforma Delrio del sistema portuale italiano, rimasta di fatto incompiuta. Se a ciò si aggiungono i colpevoli ritardi nei lavori di dragaggio di molti porti del Sud o casi come quello di Napoli che vedono lo scalo ancora distante dall'integrazione e quindi dalla garanzia di uno sviluppo reale dell'economia della città, il cerchio si chiude. E si resta in fondo basiti di fronte al fatto che nonostante tutto gli stranieri sui porti italiani anche al Sud non hanno mai smesso di tenere l'occhio vigile: i turchi a Taranto, i tedeschi a Trieste, gli olandesi e i cinesi a Genova lo dimostrano. Solo che i loro investimenti sono nati prima delle Zes o comunque indipendentemente da esse: vorrà dire qualcosa o no?

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