Se la classifica delle regioni per numero di occupati si coniuga al femminile, il Mezzogiorno ne esce addirittura peggio di quella che comprende anche i maschi. Sei negli ultimi sei posti, due in più dell'altra deprimente graduatoria, con la Campania e la Sicilia (rispettivamente 31,6% e 31,7% a tutto il 2021) a contendersi la maglia nera della vergogna, la quota più bassa cioè di donne che lavorano in tutto il Continente. Chi sta meglio, si fa per dire, di quelle sei regioni, e cioè Molise e Basilicata con circa il 42% a testa, è comunque al di sotto di territori che nemmeno tutti conoscono: Guyana (enclave francese in America Latina), Ipeiros (il greco Epiro), Sterea Ellada (sempre in Grecia), Città di Ceuta (Spagna) e così via.
La media dell'occupazione femminile al Sud è pari al 35,6%, quella nazionale è al 53% (sfiora il 52% tra i 15 e i 64 anni mentre quella maschile supera il 69%): parliamo di 9,87 milioni di donne che restano molto lontane dai tassi di occupazione medi in Europa (67,7% nei 27 Paesi Ue). Secondo l'Eurostat, nel 2021 si va dal 77,5% massimo di Estonia e Paesi Bassi al 52,7% della Grecia, passando per il 75,9% della Germania e il 70,2% della Francia, per non accennare alla Svezia con il 78% (ma interessanti anche i dati di Lituania con il 76,7%, Finlandia con il 75,8% e Danimarca a quota 75,6%).
Le donne del Sud restano praticamente al palo da sempre, anche ora che l'occupazione complessiva del Paese registra i primi incrementi stabili dopo gli anni del Covid: a gennaio scorso, l'occupazione femminile è cresciuta solo dello 0,2 punti rispetto a dicembre e dell'1,6% rispetto allo stesso mese di un anno fa, a riprova del fatto che pur migliorando il mercato del lavoro (le statistiche Istat sono le migliori da quasi 30 anni) le italiane sono sempre un passo indietro.
«C'è una grande questione culturale irrisolta in Campania e in generale nel Mezzogiorno dice Anna Del Sorbo, presidente della Piccola industria d Confindustria Napoli -: tante, troppe donne in età da lavoro non hanno completato il percorso di studi. Nella stragrande maggioranza dei casi, chi ce l'ha fatta ha investito il tempo nella formazione. Ma è anche vero, e non lo diciamo ora per la prima volta, che al Sud a penalizzare le donne che vogliono lavorare è soprattutto la carenza gravissima di servizi pubblici per le famiglie. Due stipendi da operai non possono bastare per assumere e inquadrare anche una baby-sitter. E due stipendi sono indispensabili per un'esistenza almeno dignitosa».
C'entra tutto questo (e molto altro) nel fatto che nemmeno i tanti incentivi pubblici che dovrebbero favorire l'assunzione di donne e giovani) hanno finora funzionato, almeno nel Mezzogiorno.
L'ultimo nato in ordine di tempo per incentivare il lavoro di giovani e donne è il progetto del ministro del Lavoro Calderone che riguarda i neet, circa 3 milioni di maschi e femmine soprattutto del Mezzogiorno che non studiano e non cercano un'occupazione. Per incentivarne le assunzioni, nella bozza del decreto sul Reddito di cittadinanza si prevede di "premiare" i datori di lavoro privati che assumono under30 Neet con un bonus da scontare mese per mese, sul 60% della retribuzione. Non tutti però sono d'accordo: «Mi chiedo se l'intenzione del governo Meloni di contrastare il fenomeno dei neet con un incentivo rafforzato sia la strada giusta dice Doriana Buonavita, segretario generale della Cisl Campania -. È inimmaginabile pensare di poter offrire lavoro a chi oggi è ancora nel percorso del Reddito di cittadinanza o sta a casa se non si porrà mano ad interventi strutturali e si inizierà a rafforzare la governance tra politiche attive, formazione e sviluppo. Quindi meno incentivi ma più programmi di azioni di rilancio attraverso l'utilizzo delle risorse per la formazione, funzionali a politiche che producono lavoro stabile».
Fare di più, insomma, e con la massima urgenza e del resto il campo delle proposte su dove e come migliorare l'esistente è molto largo e variegato. «Non credo che ci possa essere una strada diversa dall'estendere l'attuale decontribuzione Sud per le donne a 5 anni», dice la Del Sorbo. E spiega: «Con questa scadenza, che dev'essere ovviamente accompagnata da altrettanti anni di formazione, l'imprenditore non ha più molti abili per non reclutare manodopera femminile, prevedendo per esempio le sostituzioni per maternità agevolate che oggi continuano purtroppo a essere un limite per le assunzioni di donne». Di sicuro aiuta anche il "fai da te" in certi casi: «Ad una mia dipendente - dice l'imprenditrice - che rientrava al lavoro dopo un anno di maternità ho permesso di staccare un'ora prima per poter essere vicina il più possibile al bambino appena nato senza intaccare la retribuzione».
Non è un caso che la maternità continua ad essere percepita come un ostacolo non solo alla crescita professionale ma anche al lavoro in sé. Due anni fa le donne occupate senza figli erano il 74%, quelle con un figlio under 6 il 54%. Inoltre, secondo i dati Inapp, dopo la nascita di un figlio quasi una donna su 5 (18%) tra i 18 e i 49 anni non lavora più e solo il 43,6% permane nell'occupazione (il 29% nel Sud). Il motivo prevalente? Lo stesso di sempre: la difficile conciliazione tra lavoro e cura (52%), seguita dal mancato rinnovo del contratto o dal licenziamento (29%).