Lavoro in Italia, boom di contratti a tempo ma l'occupazione è ferma

Lavoro in Italia, boom di contratti a tempo ma l'occupazione è ferma
di Nando Santonastaso
Sabato 17 Luglio 2021, 08:19 - Ultimo agg. 08:24
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La pandemia come il sigillo finale, l'ultima tappa di un percorso iniziato da tempo. Perché è da un decennio ormai che la precarizzazione del lavoro in Italia non sembra conoscere ostacoli, che sono sempre i giovani e le donne a pagare il pezzo più alto della crisi in termini di stabilità occupazionale e che l'impatto sui salari resta forte e preoccupante.

Lucida e impietosa, per usare le parole della segretaria Cgil Tania Scacchetti, l'analisi contenuta nel primo Rapporto Inapp, presentato ieri a Montecitorio dal presidente dell'Istituto nazionale per l'analisi delle politiche pubbliche, Sebastiano Fadda (il Rapporto riprende una tradizione trentennale dell'Isfol e prova a tracciare in 8 capitoli le trasformazioni in corso nel mercato del lavoro e nella formazione professionale). Intanto i dati: negli ultimi dieci anni i contratti a tempo determinato sono aumentati di oltre 800mila unità registrando un'impennata del +36,3% con una variazione dell'occupazione complessiva pari però ad appena l'1,4%.

«Anche la distribuzione funzionale del reddito spiega il Rapporto - ha mostrato un peggioramento persistente come conseguenza della contrazione marcata delle retribuzioni salariali a fronte del trend crescente, seppur debolmente, della produttività del lavoro. La flessibilità nel nostro Paese si traduce così in una sempre maggiore precarietà, un andamento che continua anche nella ripresa post Covid dove sono sempre i contratti a termine, part time e di somministrazione ad essere scelti dalle imprese».

Lo dimostra il fatto che nel trimestre marzo-maggio 2021 gli occupati precari sono saliti di 188mila unità mentre gli stabili sono diminuiti di 70mila unità. Il fenomeno è abbastanza omogeneo tra Nord, Centro e Sud ma nel Mezzogiorno la precarietà fa sempre più rima con povertà, disuguaglianza e disoccupazione.


Difficile, leggendo questi numeri, non concordare con l'Inapp sul fatto che «le imprese sembrano non scommettere con convinzione sulla ripartenza dopo la crisi imposta dalla pandemia, dove solo il blocco dei licenziamenti ha tutelato di fatto i lavoratori più fragili». Sicuramente, nell'Italia dei 2,8 milioni di persone che beneficiano del Reddito di cittadinanza e dei 212mila posti in meno nella Pubblica amministrazione, sempre nel decennio, lo scenario del lavoro precario fa riflettere. Perché è vero che i contratti di lavoro a tempo determinato di breve durata già da vari anni sono una quota importante nel mercato del lavoro: nel 2019, ancora cioè in epoca pre-pandemica, circa il 76% delle comunicazioni di attivazione o cessazione riguardava rapporti di lavoro a tempo determinato. Ed è altrettanto vero che fino a quell'anno non sono mancate le trasformazioni da tempo determinato a indeterminato (circa 640mila). Ma è purtroppo altrettanto vero che con la pandemia, specie nella fase più acuta, si è determinata una perdita di circa un milione e mezzo di attivazioni di rapporti a tempo determinato, penalizzando soprattutto l'apprendistato.

Nel 2020 le riduzioni maggiori delle attivazioni in valore assoluto si registrano in Lombardia e nel Lazio (rispettivamente -432mila e -406mila) ma anche Campania, Toscana, Emilia-Romagna e Puglia evidenziano valori negativi importanti.

Il risultato netto del 2020 rispetto al 2019 è che, da un lato, la crisi sanitaria ha pesato di più al Nord e in particolare in Lombarda (-71mila), Trentino Alto Adige (-47mila) e Veneto (-40mila), che mostrano le riduzioni maggiori, ma anche in Toscana ed Emilia-Romagna ha colpito parecchio. Al Sud le cose in apparenza sembrano essere andate meglio: l'Inapp, disaggregando i dati generali, conferma che numeri positivi sulle attivazioni nette emergono da alcune regioni del Mezzogiorno (Calabria, Sicilia, Campania e Molise), che sembrano aver risentito meno della situazione emergenziale. Ma si tratta di valori comunque marginali rispetto al peso della crisi di comparti come il turismo e la ristorazione nei quali, fino al 2019, il peso del lavoro a tempo determinato nel Meridione era notevole (e con esso anche l'indice della precarietà salariale e contrattuale).

La pandemia in ogni caso non ha fatto sconti a nessuno: nel Terzo Settore, ad esempio, dove operano quasi 360mila unità, il 14,2% di esse a causa dell'emergenza sanitaria ha dovuto sospendere o chiudere le proprie attività di assistenza e non per questo, ovviamente, si è ridottala fascia di popolazione in povertà assoluta o relativa. Dice il presidente Fadda: «Nell'ultimo anno e mezzo per via della crisi innescata dalla pandemia molti lavoratori sono stati artificiosamente congelati nei loro posti di lavoro e adesso bisogna avere la capacità di scongelare il lavoro, sostenendone la domanda sia nei settori tradizionali più colpiti sia in quelli più innovativi. Scongelare il lavoro, dopo il blocco dei licenziamenti significa scommettere con determinazione sulla crescita economica e sulle politiche attive, in particolare per la formazione dei lavoratori». Ovvero Pnrr e riforme, la strada è obbligata.
 

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