Lavoro e Covid, verso una rivoluzione degli spazi: metà delle scrivanie in ufficio risulterà di troppo

Lavoro e Covid, verso una rivoluzione degli spazi: metà delle scrivanie in ufficio risulterà di troppo
Lavoro e Covid, verso una rivoluzione degli spazi: metà delle scrivanie in ufficio risulterà di troppo
di Mario Baroni
Martedì 27 Aprile 2021, 17:02 - Ultimo agg. 23 Marzo, 19:42
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Diminuiranno del 50% gli spazi dedicati alle scrivanie. Le quantità ci aiutano spesso a comprendere le qualità. Se lo studio elaborato presso 14 grandi aziende italiane da “Il Prisma” - una società internazionale di architettura e design, con sedi a Londra, Milano, Roma e Lecce – si avverasse sarebbe una rivoluzione. Si stimano – e in questo caso sulla previsione concordano diverse fonti – spazi “liberati” pari a circa il 30% rispetto alle superfici immobiliari destinate a ufficio (ovviamente non si parla di impianti produttivi manifatturieri) prima della pandemia. «Intendiamoci, non è detto che tutti gli spazi che si liberano per la riduzione delle scrivanie diventino spazi inutili per l’azienda – spiega Arianna Palano, associate e team leader del Prisma – ma sono spazi da riutilizzare per altri scopi». Potremmo dire che in questo 30% di spazi da recuperare ci potrebbero essere una sala lounge o una palestra aziendale, un ambulatorio medico aziendale o una biblioteca.

NUOVI SPAZI

Insomma, lo spazio liberato potrebbe diventare un nuovo luogo destinato a servizi di welfare aziendale. La rivoluzione dello smart working provocherà anche questo impatto inatteso sul mercato e sulle ristrutturazioni immobiliari. Passeremo dagli headquarter aziendali agli “hub quarter”. Sì, perché il lavoro da remoto non potrà svolgersi sempre e solo dalla cucina di casa (o dal salotto per chi è più fortunato). Finita l’emergenza – e risvegliati dall’euforia sognante che vorrebbe lo smart working praticabile dalla riva del mare o dalla baita di montagna – dovremo immaginare di andare meno spesso in ufficio (2 giorni su 5, sembra l’equilibrio destinato ad affermarsi) ma dovremo trovare luoghi di lavoro intermedi, aree di coworking, veri e propri hub, magari interaziendali, attrezzati tecnologicamente e pensati per riproporre un luogo di condivisione che non sia il tradizionale ufficio, con open space ormai sospetti (in tempi di distanziamento) e con densità abitativa intollerabile per chi ha attraversato l’Inferno del Covid. «Ci troviamo di fronte a un cambiamento epocale che vedrà lo spazio di lavoro come protagonista. Negli ultimi dieci anni, l’ufficio si è evoluto verso un modello che ha fatto della flessibilità il suo punto di forza: il modello organizzativo agile, declinato nello smart working a livello gestionale e nell’activity based working a livello spaziale, ha infatti letteralmente soppiantato quello tradizionale fatto di controllo, orari fissi e postazioni assegnate. Questo fenomeno è stato esponenzialmente accelerato dalla pandemia Covid-19, che ha portato a un balzo in avanti di almeno 5 anni». È il commento di Alberto Cominelli, head of Project Management CBRE Italy (la filiale italiana di una delle maggiori società di consulenza immobiliare).

ARRIVA IL DESK SHARING

È iniziato il tempo del “desk sharing”, l’ultimo capitolo di quella “sharing economy” che ci ha suggerito di condividere l’auto per andare in ufficio – quando si andava in ufficio – sostituendo la proprietà con l’accesso. Come sempre, ogni capitolo della sharing economy si fonda su una diffusione di tecnologia digitale essenziale. Per condividere le scrivanie bisognerà disporre di un credibile sistema di prenotazione, come le piattaforme che sottendono le prenotazioni alberghiere o del trasporto aereo o ferroviario. Solo una delle conseguenze dello smart working. E una delle premesse per immaginare una diversa vivibilità dei luoghi di lavoro. Secondo l’ultimo rapporto di CapGemini circa la metà delle imprese intervistate prevedono di dover ridurre gli spazi da dedicare agli uffici. L’11% del campione scommette su una riduzione di almeno il 25% rispetto alle metrature attuali. Jes Staley, ceo di Barclays sostiene che «l’idea di collocare in un unico edificio 7.000 persone è un problema del passato».

I segnali del cambiamento sono sempre contraddittori. Mentre si immaginano uffici più piccoli, o comunque con meno scrivanie (e quelle che ci sono non più proprietarie e personalizzate: che fine faranno le foto della moglie, dei figli o del cane?), ecco che i colossi del web sembrano invertire la tendenza appena avviata. Google ha annunciato in questi giorni l’intenzione di investire quest’anno 7 miliardi di dollari in uffici e data center in 19 diversi stati Usa. Sarà perché l’obiettivo di Google, secondo quanto ha dichiarato il suo ceo Sundar Pichai è di creare 10.000 nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato quest’anno? Forse. Ma è altrettanto certo che le formule ibride saranno quelle vincenti. Ci abitueremo a vivere in una dimensione “phygital”. «Il futuro del lavoro sarà ibrido, in un contesto di confini sempre più sfumati tra fisico e virtuale. Gli spazi devono evolvere seguendo i cambiamenti dei comportamenti e delle esigenze delle persone», commenta Palano. Che aggiunge una considerazione forse inattesa: «Sono le giovani generazioni ad aver mostrato più sofferenza dalla distanza dell’ufficio. Sono le generazioni under 35 anni a richiedere con maggiore insistenza un ritorno massiccio in ufficio».

PAROLA DI STEVE JOBS

La socializzazione offerta dallo spazio fisico del luogo di lavoro è quello che più manca ai lavoratori, è la prima motivazione di chi vorrebbe rientrare in ufficio al più presto, alla fine del distanziamento obbligatorio. D’altronde anche Steve Jobs riteneva imprescindibile l’occasione di ritrovarsi insieme in ufficio. Le tecnologie digitali nascono da menti coinvolte in presenza, con una fisicità irrinunciabile. Ricordando che “cose” come Gmail e Street View erano nate dalle chiacchiere informali che alcuni ingegneri erano soliti fare durante la pausa pranzo nel ristorante aziendale, il cofondatore di Apple – come si legge nell’unica sua biografia autorizzata, quella scritta da Walter Isaacson – sosteneva che «nella nostra società digitale c’è la tentazione di pensare che le idee possano essere sviluppate tramite e-mail e iChat. È folle. La creatività nasce dagli incontri spontanei, dalle discussioni casuali».

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