
La donna cancellò quanto scritto e decise di impugnare l'atto al tribunale del Lavoro, ma in primo grado e poi in appello i suoi ricorsi sono stati respinti dai giudici che hanno giudicato scorretto il suo comportamento. E per la Cassazione si è trattato di licenziamento per giusta causa definendo il post come «diffamatorio». La decisione definitiva è arrivata lo scorso 27 aprile.
Secondo i magistrati «i social sono uno spazio pubblico, nel quale i contenuti potenzialmente diffamatori possono trovare un vasto eco. È venuto meno, in buona sostanza, il vincolo fiduciario che deve esistere tra azienda e dipendente».
«La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione - ha spiegato la Corte Suprema - per lapotenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone. Scrivere un post sul social realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso per l'idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone con la conseguenza che, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili».
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