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Vulcano Campi Flegrei, crosta indurita e caldera a rischio rotture: «Ma non significa eruzione»

Studio di università di Londra e Ingv: perché aumenta il numero dei terremoti

La Solfatara
La Solfatara
di Mariagiovanna Capone
Articolo riservato agli abbonati
Sabato 10 Giugno 2023, 08:34 - Ultimo agg. : 16:19
4 Minuti di Lettura

Il titolo dello studio appena pubblicato su Nature mette in allarme: «Potential for rupture before eruption at Campi Flegrei caldera, Southern Italy» ossia «Potenziale rottura prima dell'eruzione nella caldera dei Campi Flegrei, Sud Italia». Parole che per un "non tecnico", potrebbe far intuire un'eruzione imminente. Di per sé la notizia non dovrebbe stupire, essendo un'area vulcanica attiva, sorvegliata speciale dell'Istituto di Geofisica e Vulcanologia dal 2012, quando cioè il sistema di allerta della Protezione civile passò da verde a giallo ossia di «Attenzione». Già dal novembre 2005 però, siamo entrati in una fase bradisismica, con un sollevamento alla velocità di circa 15 millimetri al mese che ha raggiunto i 109,5 centimetri da allora. Tuttavia gli abitanti della zona della Solfatara non vivono sonni tranquilli poiché è evidente l'aumento dei terremoti negli ultimi mesi: solo a maggio ci sono state 661 scosse, e dall'inizio dell'anno 2.443. Ora c'è questo nuovo studio, condotto da ricercatori dell'University College London (UCL) e dell'INGV, che rischia di far tremare le vene e i polsi, fissando la rottura della crosta dei Campi Flegrei come «possibile». Ma gli autori corrono immediatamente ai ripari chiarendo che «rottura non significa eruzione» come dichiarato da Christopher Kilburn, vulcanologo dell'UCL.

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Dallo studio pubblicato su Communications Earth and Environment di Nature, gli autori dimostrano che il susseguirsi degli episodi di sollevamento degli ultimi decenni ha causato un progressivo indebolimento nella crosta della caldera dei Campi Flegrei. Questo risultato è assai interessante, poiché quasi tutti gli studi finora condotti (a parte qualcuno del 2017) evidenziavano il comportamento elastico della caldera flegrea, cioè in grado di reagire alle pressioni dovute al sollevamento con una certa duttilità. Stavolta lo studio ci dice che la crosta della caldera si è indurita, o meglio ha un comportamento inelastico, tende quindi a reagire ai sollevamenti fratturandosi.

«Nel 2016 avevamo ipotizzato l'incremento di sismicità, effettivamente verificatosi a partire dal 2019. Questo risultato ci ha incoraggiato a continuare e gli studi ci hanno fornito informazioni sul livello di fratturazione della crosta» precisa Kilburn. Per Stefano Carlino dell'Osservatorio Vesuviano, ci sono evidenze che «nel corso degli episodi di sollevamento della caldera dei decenni passati si sono progressivamente prodotte modifiche dello stato fisico della crosta e questi cambiamenti non possono essere trascurati». Secondo gli studiosi, aree di roccia fusa sono state immagazzinate a circa 10 chilometri di profondità.

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«Ogni tanto, parte di esse migra verso l'alto ma non ci sono prove che questo stia accadendo ora. Tuttavia, se in futuro del magma si muoverà verso l'alto, la presenza di una nuova rottura potrebbe renderlo in grado di raggiungere la superficie più facilmente di prima» precisa Kilburn, aggiungendo che «rottura non significa eruzione, ma è un processo naturale e si verificherà se la crosta è sufficientemente tesa. Il nostro studio indica che, se la crosta dei Campi Flegrei continua a distendersi, allora la rottura sarà più probabile di quanto non fosse da quando il vulcano divenne irrequieto per la prima volta settant'anni fa». Il rischio di eruzione però «diverrebbe concreto solamente se la causa dell'attuale sollevamento fosse dovuta a un contributo magmatico, cosa che gli autori dello studio al momento si sentono di escludere, ritenendo l'eventuale presenza di magma marginale.

«Il metodo è certamente interessante, ma il cambiamento nel trend di aumento di sismicità con il sollevamento non è evidente. Inoltre, il modello non tiene conto che la sismicità ai Campi Flegrei dipende non soltanto dal livello di sforzo interno (che si riflette nel livello assoluto di sollevamento del suolo) ma anche dal tasso di sollevamento, che oggi è circa 5 volte minore che nel bradisisma degli anni 80» riflette Giuseppe De Natale, sismologo dell'Osservatorio Vesuviano.

«Da ciò, risulta quindi difficile concludere che il sistema sia effettivamente entrato in un regime inelastico e dunque critico. D'altra parte, dal 1950 ad oggi il sollevamento del suolo totale massimo è stato di circa 4,5 metri, mentre prima dell'eruzione del 1538 è stato di almeno 15-17 metri. Quanto accaduto prima dell'eruzione di Monte Nuovo sembra indicare una grande resistenza della crosta prima del cedimento, probabilmente dovuta agli altissimi gradienti termici che rendono le rocce superficiali capaci di deformarsi significativamente senza fratturarsi del tutto. Questo tipo di comportamento, che in gergo si definisce viscoso, è lo stesso che rende la sismicità fortemente dipendente dal tasso di incremento della pressione interna, ossia dal tasso di sollevamento del suolo».

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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