Melito, il rione della 219: un quartiere satellite del drogashop-Scampia

Rione 219
Rione 219
di Marco Di Caterino
Domenica 17 Settembre 2023, 10:51
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Il torto di Melito, se una città può avere torto, è quello di essere divisa da Scampia dai settanta metri di larghezza della Circumvallazione esterna. Un confine labile. Persino cancellato dall'ondata di sangue e barbarie della mamma di tutte le faide, quelle tra i Di Lauro e gli scissionisti, tant'è che questi ultimi sono sbarcati a Melito per leccarsi le ferite ma senza perdere contatto con la «dirimpettaia» Scampia, senza sparare un colpo. Spazzando la mala locale, che nemmeno era poca roba, solo con la potenza criminale del nome. Accadeva circa venti anni fa. E a tutt'oggi nulla e cambiato.

Un vecchio cartello stradale, all'ingresso sud della citta, augura il classico «Benvenuti a Melito», ma anche rientrando nei canonici confini del politically correct, accanto al benvenuto, quasi tutti accostano «camorlandia». E centro di potere criminale e quinta essenza della camorra, manco a dirlo, resta il quartiere 219.

Un'orrida edilizia, più brutta e angosciante persino del Parco Verde e del Rione Salicelle, insediamenti questi, che a dare retta a chi li ha ideati, progettati e costruiti con cemento e amianto, hanno almeno circa quattro metri quadrati di verde pro capite. Qui è tutto grigio. Coperto da una spessa coltre di grigio che fa pendant con il giallo rinsecchito delle erbacce, che in alcuni punti nemmeno riescono a svilupparsi per gli immancabili sacchetti di rifiuti e monnezza variopinta. I radi pedoni sfrecciano come fossero sotto un temporale da cambiamento climatico, e ancora più sorprendente, accelerano ancora di più il passo, se uno «straniero», accenna a fermarti.

Una mamma che sta salendo in auto dopo una baruffa con il figlioletto riottoso, nemmeno ti da il tempo di porre una domanda, e stizzita sbotta: «Meglio che ve ne andate, questo non è il posto giusto per fare domande». E allora meglio fotografare il degrado, gli evidenti abusi edilizi piccoli, pochi, grandi, la quasi totalità, che hanno stravolto e abbruttito ancora di più le facciate degli isolati. Tempo tre-quattro scatti, e il rumore, anzi il rombo, di una moto arriva alle spalle. Sono in due. Barba nera, fisico da palestra, bisbigliano: «E perché queste foto? Qui non si può. Andate a Napoli, a Posillipo, quelli sono posti belli da fotografare. Qui no!».
Prima di andare via, però, un giro in auto, a passo d'uomo, rimanda l'immagine di un quartiere deserto, con finestre chiuse, nessuno in strada. Hai la contezza dell'espressione usata e riusata a iosa del «controllo del territorio». A differenza dagli altri quartieri gemelli, nati con la legge 219 per dare un alloggio agli oltre 40mila sfollati napoletani che avevano perso la casa nel terremoto del 23 novembre 1980, per quello di Melito, non esistono statistiche sul fenomeno dell'occupazione abusiva degli alloggi. Non c'è traccia di uno straccio di censimento dei residenti, e nemmeno un elenco di chi non paga affitto, acqua e corrente elettrica. Inutile chiedere negli uffici comunali. Ma non perché sia un sabato di metà settembre. Nella casa comunale, nessuno parla. Il silenzio è una regola d'oro per sopravvivere, soprattutto dopo la bufera scoppiata dopo l'arresto del sindaco Luciano Mottola, il 18 luglio di quest'anno, disposto dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Con il primo cittadino, che poi dopo circa un mese ha ottenuto gli arresti domiciliari, furono arrestate altre diciassette persone, e tra queste anche il presidente del Consiglio comunale, Rocco Marrone, 38 anni, e il consigliere comunale di Fratelli d'Italia Antonio Cuozzo, 25 anni. Arresti domiciliari invece per due persone tra cui il consigliere comunale Massimiliano Grande, 50 anni, capogruppo di «Davvero Ecologia e diritti».

Una maxi retata, perché agli indagati a vario titolo sono stati contestati reati pesanti che vanno dallo scambio elettorale politico mafioso ad attentati ai diritti politici del cittadino, all'associazione di tipo mafioso, corruzione, concorso esterno in associazione mafiosa, tentata estorsione. L'ipotesi dei magistrati dell'antimafia riguarderebbe un patto tra gli amministratori comunali e gli «scissionisti», che anche in questa occasione hanno mostrato i muscoli e ribadito l'assunto del controllo del territorio, del quale non ha mollato nemmeno un centimetro quadrato in venti anni.

Anche quando gli « scissionisti» si sono trovati a fronteggiare una gravissima crisi interna tra gli affiliati con la casacca di Cesare Pagano e quelli che invece erano fedeli a Lello Amato. Nello scontro hanno trovato la morte Antonio D'Andò ucciso il 22 febbraio del 2011 a colpi di pistola e seppellito in un luogo segreto, fatto poi ritrovare dagli esecutori materiali del delitto. Come scalpore destò il barbaro omicidio di Giovanna Arrivoli, detta « Giò», che si sentiva un uomo e come tale era rispettato nel quartiere 219, dove gestiva un bar. Giò fu uccisa per aver detto di no ad un'alleanza con il gruppo Amato per gestire un traffico di stupefacenti.

Giò fu trucidata con tre colpi di pistola alla testa, e scaricata in un fosso, a faccia in giù appena coperta da una manciata di terra. Nemmeno il tempo di rifiatare e pochi giorni il delitto furono uccisi in un appartamento di Parco San Pio, zona di Lello Amato, Alessandro Laperuta e il suo inseparabile body guard Mohammed Nouvo. Nella sparatoria rimase ferito un nipote 17enne del boss Amato, che avrebbe punito le vittime, orbitanti nell'area di Rosaria Pagano, detta " zì Rosaria", che aveva affidato a personaggi del Rione Salicelle di Afragola tutta la filiera del contrabbando di sigarette. L'ultimo omicidio della faida che cova sotto la cenere è del 27 gennaio, quando a cadere sotto una gragnuola di colpi mentre era a pranzo nella trattoria «Gaetano e Teresa» in via Lavinaio, fu Vincenzo Nappi, 57 anni, capozona a Melito per conto dell'ala degli Amato.

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