Don Ciro, l'uomo del tempo: «La mia vita tra le lancette nel cuore di Napoli»

Don Ciro, l'uomo del tempo: «La mia vita tra le lancette nel cuore di Napoli»
di Francesca Saturnino
Martedì 26 Ottobre 2021, 12:30
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La bottega di «don Ciro» è un viavai: chi passa per un saluto, chi si affaccia e chiede: «Allora, si può fare qualcosa con quell'orologio?». Lui, una folta chioma immacolata sul capo, non nega un sorriso a nessuno. È qui dal 1963. Siamo a Largo San Giovanni Maggiore Pignatelli, al riparo dalle carovane umane di turisti che inondano l'attigua Benedetto Croce. Ciro Marra, orologiaio, racconta che quando aprì non aveva neanche i soldi per l'affitto. «Poi ho acquistato il negozietto. Per via del lavoro, mia moglie quasi quasi mi lasciava. Mi ero fatto un banchetto anche a casa».

In questa zona, precisa, erano tutti artigiani.

C'era un rilegatore di libri, un tappezziere, un falegname; ancora un intarsiatore, un sarto, il mobilificio dei fratelli Centomani. All'angolo Memole vendeva olio e carbone. Su Benedetto Croce, un'antica camiceria, e un negozio di cornici. «Quando ricordo questi posti, dico: come siamo arrivati così? Secondo me hanno sbagliato a dare le licenze a tutti. Oggi dove ti giri, c'è solo cibo». 

Ciro parla piano, appoggiato al suo banco di legno: un regno di pinze, cacciaviti, chiavi, piccole scatole con ingranaggi. Alle sue spalle, orologi di tutti i tipi e grandezza. Da tavolo, da salone, a cucù. «Sono nato a piazzetta degli Orefici nel marzo 1940, cresciuto sotto i bombardamenti. Dove abitavo c'era un vecchio orologiaio. Prima il banco si metteva dietro al vetro della porta, per via della luce. Andavo a scuola a San Filippo e Giacomo. Ogni mattina mi fermavo a guardare. Un giorno, mi disse: Entra! Così iniziai a scendere alle 8, anziché alle 8.30. Ricordo il piacere del tempo trascorso a osservarlo».

Don Ciro a 8 anni andò a fare il ragazzo di bottega da un altro maestro orologiaio in via Santa Brigida, ci lavorò fino al 1961. Dopo il servizio militare, si mise in proprio. «Il mio datore di lavoro vinceva le scommesse con gli amici: nessuno credeva che a soli 12 anni potessi riparare un cronometro. Gli orologi sono stati la mia unica passione. Non so fare neanche una tazza di caffè».

Mentre parla, il suono di uno dei pendoli appesi lo fa sprofondare in un tempo tutto analogico. «Questo è il vero orologio», dice Don Ciro, mostrandomi un modello da polso in metallo. «Quelli che fanno ora, con la pila, io li chiamo segnatempo...». Spiega che Napoli, soprattutto il borgo degli Orefici, era piena di orologiai. Gli orologi arrivavano dalla Svizzera già completi: «Qualcuno aveva le macchine, i movimenti, vale a dire, e le casse a parte. Allora si dovevano assemblare. L'orologiaio deve smontare l'orologio: pezzo, pezzo. Poi lo deve pulire, esaminare, rimontare. La famosa revisione. Come si fa con le macchine». 

Quando gli si chiede se oggi c'è ancora mercato, risponde di sì, «ma le case hanno il loro centro assistenza. Noi avevamo i fornitori con i pezzi di ricambio. Prima i cinturini erano in pelle o metallo, potevi metterci quello che volevi, ora invece sei obbligato a usare modelli precostituiti. In città c'erano molti artigiani che lavoravano la pelle, oppure grandi rappresentanti che venivano da Bologna. Ora un cinturino di plastica con un orologio di quarzo deve andare in assistenza».

I fratelli di Ciro sono stati tutti artigiani: un incisore di libri, due rilegatori, un sarto. Alessandro, il figlio maschio oltre a due femmine, ha imparato il mestiere del padre, come pure altri due ragazzi che lavorano in proprio. Ciro, con il suo «occhialino» di vetro spesso sempre calzato, è l'ultimo decano di questa strada. Tutti, anche i bambini del quartiere, gli portano rispetto. «Sono dell'idea che noi artigiani siamo stati la rovina degli industriali perché riparavamo gli oggetti: duravano un'eternità».

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