Vele, a Scampia va giù il simbolo di Gomorra ma la rinascita è ancora lontana

Vele, a Scampia va giù il simbolo di Gomorra ma la rinascita è ancora lontana
di Antonio Menna
Giovedì 20 Febbraio 2020, 08:15 - Ultimo agg. 12:52
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Stasera, con le prime ombre del tramonto, sotto la Vela verde a Scampia ci sarà una danza di liberazione: un concerto neomelodico come di ringraziamento, l'ultimo saluto, l'addio del quartiere, una commemorazione. Un funerale antico, un sabba, chissà se comparirà anche un fuoco per ripulire la memoria. Cantanti del rione, come Luciano Caldore, che in quella Vela ci ha vissuto vent'anni e ci lascia lacrime e ricordi. O Franco Ricciardi, che scandendo uno-sei-sette ha costruito il sound amaro delle 167. Nel pomeriggio, poco prima del concerto, una serie di comitati popolari saluteranno l'abbattimento come il grande risultato di una lotta. La battaglia del togliere. Buttare giù la vela, qui, non è semplicemente demolire un palazzo. È abbattere il totem. Spezzare le gambe al male. Come un nevrotico si libera di un complesso dopo anni di analisi, questo quartiere ha caricato per decenni su queste quattro pietre mangiate dal degrado tutto il significato simbolico dello smarrimento, e oggi, mentre il braccio di una gru comincia a mangiare il primo boccone del palazzo, per divorarlo in venti giorni, spera davvero che da una morte brilli una rinascita, come se questa demolizione fosse una potatura di un ramo secco, e lasciasse libero il fiore di aprirsi, finalmente. Ma è proprio così? Qualcuno, sul versante istituzionale, si è spinto addirittura oltre, costruendo strane simmetrie tra la Vela e la camorra. Smantellando il mostro si dà un colpo ai clan, ha detto qualcuno. Ma davvero?

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L'ERRORE
In realtà, i frammenti del discorso amoroso sulla Vela che cade raccontano oggi più una sconfitta che una vittoria. Ma le feste, si sa, non sono un momento critico. È giornata di liberazione. Viene giù la terrazza di Gomorra, il riparo della (ex) piazza di spaccio più grande d'Europa, il palcoscenico di una faida che tra il 2004 e il 2012 ha fatto 128 morti. E quindi, come si fa nei riti religiosi dove la risata si alterna alla lacrima, oggi si festeggia amaro. La Vela verde è la terza che cade. Erano sette, la prima - la F - è stata demolita nel dicembre del 1997, 23 anni fa. L'esplosivo la fece implodere a metà, ci vollero mesi di demolizioni successive. La seconda - la G - nel Duemila. La terza - la H - nel 2003. Sembrava un processo rapido e preciso. Nuove palazzine popolari, il trasferimento delle famiglie (per ogni Vela, almeno 250), l'abbattimento dell'edificio prima che qualcun altro, dentro una frenetica corsa disperata a costruire diritti, occupasse gli alloggi e poi appresso, all'edificio successivo. Ma il treno a un certo punto si è fermato. Blocco dei fondi, ritardi burocratici. Sembrava che quei palazzi con la forma del Vesuvio vendessero cara la pelle. Il Restart Scampia, ambizioso progetto partito addirittura con l'allora presidente della Repubblica Scalfaro, si era trasformato in una nuova attesa. Sono così rimasti in piedi per altri 17 anni quattro serpentoni di cemento, continuando a mostrare al mondo una immagine simbolo inquietante, corridoi bui dove gocciola sempre qualcosa, balconcini laceri, e gli immancabili striscioni automotivazionali come una voce di dentro, stesi sul degrado, ad ammonire che Scampia non è Gomorra. Il canto e il controcanto.
 

 

LA STORIA
Ora che la gru ricomincia a smantellare, si ricomincia anche a sperare. Resterà in piedi solo la Vela Celeste, per ospitare uffici pubblici, probabilmente la Città metropolitana, mentre fioriranno nuovi insediamenti urbani e popolari per alloggiare le famiglie. Basterà questo per scrivere una storia nuova? Divampano più domande che risposte, nel giorno della demolizione. Nei 27 milioni di euro impegnati per l'operazione c'è anche la riqualificazione generale del quartiere. Aree verdi, zone di aggregazione. Quello che è mancato negli anni tra il 1962 - data della legge 167 che ha finanziato gli insediamenti abitativi popolari - il 1975, data di inaugurazione del mostruoso complesso edilizio, e almeno fino alla metà degli anni Novanta. L'idea fu dell'architetto Di Salvo: aprire un varco di nuovo sviluppo alla città. Una valvola di sfogo rispetto alla compressione del perimetro urbano. In un primo momento si pensò addirittura di creare un nuovo comune nelle campagne del Nolano. Il progetto fu accantonato per la difficoltà burocratica. Si scelse così un'area vasta di campagna a nord di Napoli. Una distesa di terre, la scampia. Sette mostri su due lotti che diventassero internamente paesi, e una idea generosa di umanità che sa stare insieme. La nuova maniera di pensare il sociale, la definirono. I soldi ce li mise la Cassa del Mezzogiorno. Nel progetto c'erano anche centri aggregativi, servizi, attrezzature. Ma si fecero solo le case, portando famiglie di sfollati, di poveri, attraversate da varie forme di disagio costringendoli a una convivenza forzata dentro palazzoni indicati con un numero - e poi colorati dalle persone, forse per renderli meno ostili - dimenticando i servizi, che sono arrivati tardi e male. Intanto quei fortini si erano già chiusi, erano fortificazioni fatte, sembravano apparecchiate apposta per essere controllate da ogni lato da un esercito; e i plotoni si strutturarono, castigando i miti, esaltando gli spregiudicati. Lo Stato ha osservato placido per anni, quasi sollevato dal poter tenere tutto confinato in un posto solo. Salvo poi, a un certo punto, decidere di far saltare il dente e sperare, come oggi, che proprio lì ne nascesse uno nuovo e sano.
 

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