Camorra a Napoli, intervista a Raffaele Cantone: «I nuovi clan pericolosi ma deboli»

Camorra a Napoli, intervista a Raffaele Cantone: «I nuovi clan pericolosi ma deboli»
di Ferdinando Bocchetti
Mercoledì 30 Marzo 2022, 11:12 - Ultimo agg. 31 Marzo, 09:43
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«Il cancro camorra non può essere estirpato solo con l'approccio giudiziario. Bisogna incidere di più sui fattori che alimentano la manovalanza criminale. Di fronte a percentuali spaventose di abbandono scolastico e di disoccupazione è evidente che l'approccio repressivo non può bastare». Dopo essere stato a lungo a capo dell'Autorità nazionale anticorruzione, da due anni Raffaele Cantone è procuratore della Repubblica a Perugia. Ma non smette di rivolgere lo sguardo alla «provincia criminale», il tormentato hinterland napoletano che tarda a liberarsi dalla presenza pervasiva e violenta dei clan.

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In un suo saggio del 2007, Solo per giustizia, lei, nato a Giugliano, racconta di essere cresciuto in una realtà dove la camorra si respira come l'aria. È ancora così, per i bambini e i ragazzi di oggi?
«Al contrario, sono cambiate tantissime cose. È cambiata la camorra e sono cambiate le modalità di contrasto. In quel passaggio ricordavo le esperienze vissute tra gli anni 70 e 80. I boss, in quel momento storico, erano figure apprezzate, anzi ossequiate dai cittadini. Oggi c'è una percezione sociale certamente diversa. Dopo le stragi degli anni 90 abbiamo fatto enormi passi in avanti sotto il profilo investigativo. C'è stato un salto di qualità, sia per quanto attiene le misure personali sia per quelle di carattere patrimoniale.

Giovanni Falcone oggi si stupirebbe della quantità di beni che lo Stato è riuscito a sottrarre alle cosche».

E allora perché in provincia di Napoli la camorra è ancora così forte?
«Bisogna incidere di più sui fattori che alimentano la manovalanza: in altre parole, servono più scuola e più lavoro. Tanto è stato fatto, ma lo Stato non è riuscito ancora a eliminare le condizioni che favoriscono l'espansione del fenomeno criminale».

Molti osservatori definiscono quella che spadroneggia a nord di Napoli come una camorra liquida, fatta di gruppi pronti ad allearsi o farsi la guerra, a mutare pelle rapidamente con il mutare degli interessi contingenti. Cosa ne pensa?
«Si tratta di organizzazioni pericolosissime. Operano con modalità diverse dalle grandi cosche, quelle silenziose e interessate ai grandi affari: hanno caratteristiche e modalità di azione tipiche delle bande. Sono composte per lo più da giovani, molti dei quali fanno largo uso di stupefacenti. Ragazzi che hanno un culto della violenza ben radicata e che hanno ben poco da perdere. È una camorra pericolosa, ripeto, ma il ricorso costante alla violenza è anche un segno di profonda debolezza».

Intanto la gente ha paura: le continue stese, le bombe contro i negozi e persino davanti a una chiesa hanno trasformato le strade in un far west.
«I cittadini chiedono risposte immediate, ma i tempi delle indagini, che fanno leva soprattutto sull'utilizzo delle intercettazioni, talvolta possono essere anche medio-lunghi. Una sana e costante opera di presidio del territorio può essere, nel frattempo, la risposta più efficace».

Lei faceva riferimento ai beni confiscati: tantissimi, ma nella stragrande maggioranza non riutilizzati per i fini sociali previsti dalla legge. Che cosa non funziona?
«Quello del corretto utilizzo delle strutture confiscate è certamente un aspetto che abbiamo sottovalutato. Lo Stato non deve limitarsi alla confisca, ma dimostrare di essere in grado di utilizzare al meglio i beni. Fermarsi alla sola confisca è una vittoria di Pirro. Bisogna, dunque, cambiare l'approccio e agire in un'ottica di produttività».

Come?
«I beni devono essere gestiti con una logica imprenditoriale. Mi piacerebbe vedere più start up, con il coinvolgimento dei giovani dei territori, e meno centri di intrattenimento. Ritengo sia un errore che ad occuparsene siano i Comuni: gli enti locali sono già alle prese con grandi difficoltà e talvolta, al loro interno, operano personaggi, politici o funzionari, facilmente avvicinabili dai criminali locali. Credo che la gestione dei beni confiscati debba essere totalmente affidata all'Agenzia Nazionale, che necessita però di maggiori risorse, umane e finanziarie. Bisogna dare segnali forti ai cittadini: i beni che non possono essere riutilizzati devono essere alienati o demoliti».

La lotta al reimpiego illecito di capitali passa anche per le interdittive antimafia. La prefettura di Napoli, negli ultimi anni, ha emesso centinaia di provvedimenti: in passato non sempre c'era stata analoga attenzione.
«Sono numeri importanti, che si giustificano non perché i fenomeni legati al riciclaggio o reimpiego di capitali siano cresciuti negli ultimi tempi: in realtà, è vero, c'è oggi una maggiore sensibilità sull'argomento. E non solo in Campania, o nelle regioni meridionali, ma anche al nord. È un tema delicato, quello delle interdittive, poiché si tratta di misure di carattere preventivo, provvedimenti amministrativi che debbono poi reggere in sede di Tar e Consiglio di Stato. Le prefetture, ad ogni modo, hanno ben compreso l'importanza di queste misure».

In provincia di Napoli è ricorrente lo scioglimento dei Comuni per infiltrazione mafiosa. E ogni volta ci si chiede: basta mandare via un sindaco, se gli apparati amministrativi, generalmente altrettanto, se non più vulnerabili, non vengono toccati?
«La legge sullo scioglimento degli enti locali è stata migliorata negli anni scorsi, ma anche qui molto resta ancora da fare. Un prefetto che si insedia in un Comune lavora part time e talvolta nemmeno tutti i giorni, perché questo incarico non è per lui esclusivo, mentre un sindaco svolge il suo operato a tempo pieno. E già questa è una contraddizione. Il cittadino avverte la distanza che si instaura tra il funzionario inviato dal governo e il territorio. Gli scioglimenti sono utili e restano necessari nella strategia di contrasto, ma devono servire ad estirpare il marcio che si annida negli uffici. E per farlo bisogna consentire ai Municipi coinvolti di bandire concorsi, reclutare nuovo personale».

Cosa succede a Giugliano, la sua città, terza per numero di abitanti della Campania?
«Su Giugliano andrebbe fatto uno studio. È una città che ha avuto uno sviluppo abnorme, accompagnato da un boom demografico impressionante. Non credo vi siano esempi di sviluppi urbanistici tanto clamorosi. È stata creata, in pratica, un'altra città nella zona costiera. In questo e in altri territori dell'hinterland la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa ancora sentire, così come la cultura omertosa, consolidata attraverso legami familiari e cointeressenze affaristiche. Va evidenziato che il cittadino medio non ha ancora piena fiducia nello Stato: ancora oggi si teme che le istituzioni non riescano ad andare fino in fondo nel loro lavoro di contrasto alla camorra».

Ed è così?
«In realtà anche qui molto è stato fatto: inchieste giudiziarie culminate con importanti arresti, lo scioglimento del Comune, avvenuto qualche anno fa, da cui si poteva forse far partire una riflessione più profonda. Ma devo dire di aver colto di recente anche dei segnali di timida ripresa: sul litorale, ad esempio, mi sembra si stia cercando in qualche modo di invertire la rotta». 

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