Coronavirus a Napoli, la quarantena nelle Vele di Scampia: «Così ci dividiamo i centimetri»

Coronavirus a Napoli, la quarantena nelle Vele di Scampia: «Così ci dividiamo i centimetri»
di Antonio Menna
Giovedì 16 Aprile 2020, 08:30 - Ultimo agg. 11:09
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La quarantena nelle Vele di Scampia mescola paura e solidarietà. Si sente qui - forse per la prima volta - una comunità di destino, che non condivide solo precarietà economica e disagio sociale ma l'obiettivo di tutelare la salute di ciascuno e di tutti. Si realizza così, nell'emergenza coronavirus, il sogno della residenza sociale di chi negli anni sessanta ha tirato su questi enormi palazzi-vicolo con la forma del Vesuvio. Il racconto degli stereotipi li vorrebbe sovraffollati, promiscui, disordinati e insofferenti alle regole. Invece percorrendo, a un mese e mezzo dal lockdown, i corridoi bui dove gocciola sempre un tubo, dove i graffiti parlano d'amore, dove le porte hanno numeri, si notano solo ordine e silenzio. Il rispetto delle norme è rigoroso: si rimane a casa, ci si affaccia sui balconi con timidezza, magari per godersi una lama di sole; chi mette il naso fuori, lo chiude prima in una mascherina. Qualcuno approfitta per fare lavoretti: c'è chi imbianca le pareti, chi ripara le porte. Ma non si fa un metro più del dovuto: non ci sono capannelli, non ci sono assembramenti. Ci si guarda in silenzio, come se perfino la voce potesse infettare. Regna il vuoto all'esterno, dove gli spazi di Scampia sono incredibilmente ampi e verdi, e regna il vuoto all'interno, dove l'orizzonte si restringe come nel ventre di una nave, e ognuno resta nella sua cabina.
 

 

«Stiamo rispondendo alla grande», dice con orgoglio Antonio Caldore, che vive con la moglie, i tre figli e il marito di una figlia nella Vela gialla. «C'è di mezzo la salute, siamo persone coscienziose. Ma non è una sorpresa. Lo Stato si è accorto tardi di noi. Forse dopo il 2004. È vero, qui ci sono anche ex detenuti, persone che hanno fatto errori. Ma siamo esseri umani, gente che cerca di vivere al meglio delle sue possibilità». Lo sguardo finisce sul cantiere ormai fermo della Vela verde di cui era cominciata la demolizione a fine febbraio. «C'è rammarico - dice Caldore - avevamo salutato l'evento con speranza. Avevamo atteso tanto perché alla demolizione era collegato il progetto Restart, i nuovi alloggi. Ora per il coronavirus è tutto bloccato. Ma noi, come finisce questa emergenza, vogliamo che si riparta subito». Camminando nella Vela gialla ci si accorge che anche qui c'è chi sta meglio e chi sta peggio. Gli alloggi ai piani alti sono più ampi, hanno balconate piene di sole. Ma non c'è l'ascensore e molti anziani già da tempo faticano a uscire. Per loro l'isolamento non è una grande novità. Si soffre più nei terranei: case di 40 metri quadrati, poco spazio e poca aria. «E c'è la preoccupazione economica - dice Caldore - io prendo il reddito di cittadinanza. A qualcuno arrivano i pacchi alimentari. Ma c'è la dignità: col pacco reggi un giorno. Qui ci vuole un sostegno continuativo, e poi lavoro. Casa e lavoro».
 

«Io facevo i traslochi, anche per i teatri. Ora sto fermo, ma quanto tempo può durare?», se lo domanda dalla Vela gialla anche Eugenio, 40 anni, che trascorre la quarantena coi tre figli. «La prima ha 18 anni dice -, ci troviamo in una situazione tutta nuova. Mai vissuta una cosa del genere. C'è paura per la salute. Nessuno si vuole mettere a rischio. Ci prendiamo cura pure degli anziani. Mia madre vive nelle palazzine nuove. L'abbiamo chiusa in casa e noi figli andiamo a fare la spesa. Nelle Vele ci aiutiamo molto tra di noi. Se qualcuno ha bisogno, interveniamo. Non voglio dire che non me lo aspettavo ma in tempi ordinari siamo più diffidenti. Invece adesso è come se la paura ci avesse uniti. Certo, quanto possiamo durare così? Il lavoro manca, mancano i soldi. Ci aiutiamo tra di noi ma non può durare in eterno». Intanto Eugenio ammette che questa emergenza è diventata perfino una opportunità: «Con i miei figli ci stiamo riscoprendo. Ogni tanto mettiamo da parte i telefonini e giochiamo a carte, a Monopoli. C'è più tempo per noi, per parlare di tante cose». Emanuele Cerullo, 27 anni, nella Vela Celeste ci è nato e cresciuto. Da qui ha scritto le prime poesie, quando ancora frequentava la scuole media Virgilio, arrivando alla pubblicazione e ai riconoscimenti. Poi si è spostato poco distante, nelle nuove palazzine. «Scampia è mille luoghi dice e confesso che sono preoccupato per la tenuta delle tante situazioni. Non è facile resistere a lungo. Io sono chiuso in casa dal 6 marzo. Attendevo un concorso pubblico, dopo essermi laureato. Siamo tutti in attesa di qualcosa, soprattutto i giovani. Siamo i primi a pagare tutto questo. Le contraddizioni nelle vele sono tante: famiglie numerosi, anche conflitti che rischiano di esplodere di nuovo. Ci vuole più attenzione dalle istituzioni». «Io sono colpito dalla solidarietà tra tutti noi», confessa Aymen, che qui tutti chiamano Emanuele.
Tunisino, in Italia da 13 anni, elettricista, vive nella Vela Celeste con la compagna bulgara e la figlia diciottenne di lei. «Sono al secondo piano, sono fortunato - racconta - abbiamo una buona casa. Il problema è il lavoro. Io sono in proprio e sono fermo, e anche la mia compagna. Ma qui c'è aiuto reciproco. Il fruttivendolo che abita nelle Vele, a fine giornata, porta casse di frutta e verdure per chi non ce la fa. Lo stesso il macellaio, il salumiere. Le regole le rispettiamo tutti, anche nei ballatoi. Qualche ragazzo esagera, a volte. Ma sono casi singoli. Non molliamo. C'è paura. Se ci fosse un caso di positività nella Vela ci sarebbe un allarme, certo. Ma poi ognuno si chiuderebbe ancora di più nella casa propria e proverebbe a salvarsi con la sua famiglia. Il clima è quello: ci dobbiamo salvare ognuno con la propria attenzione. Dipende da noi, no? E lottiamo».

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