La Corte Ue boccia l'Italia: l'esodo silenzioso dei 450 disperati di Giugliano che nessuno vuole

La Corte Ue boccia l'Italia: l'esodo silenzioso dei 450 disperati di Giugliano che nessuno vuole
di Antonio Menna
Domenica 19 Maggio 2019, 14:00 - Ultimo agg. 14:32
4 Minuti di Lettura
Quattrocentocinquanta esseri umani hanno vagato per sette giorni nelle campagne tra Giugliano e l'entroterra casertano, tra Casapesenna, Castelvolturno e Villa Literno, dormendo a bordo delle loro auto, e cercando nel cofano, sotto i sedili, nel porta oggetti, il maglione per il fresco e il pigiama per il bambino. Quattrocentocinquanta esseri umani, 73 famiglie, una carovana disperata, un circo triste in fuga da un nemico immateriale. Una scena biblica. Il pieno di benzina, le masserizie nei furgoni o legate sul tettuccio. Il passo lento di chi cerca un'area di sosta. Lo sguardo lungo sulle terre abbandonate ai lati delle strade dove piazzarsi per la notte, o magari, ora dopo ora, costruire una nuova, piccola, città. Una nuova vita. Quattrocentocinquanta esseri umani. Duecento minori di 14 anni, centocinque in età scolare, che da sette giorni non entrano più in classe. Alcuni sono cittadini italiani. Tutti hanno passaporto europeo. Di origine Rom, in gran parte bosniaci, vivevano da tre anni in un accampamento tra via Vaticale e via Sambuco, sui terreni di una ex fabbrica di fuochi d'artificio, a ridosso del Ponte Riccio, una frazione di Giugliano che cuce la periferia della città con la zona del litorale, a pochi passi dalla Circumvallazione esterna e dell'imbocco dell'Asse mediano.
 
Le ruspe, una settimana fa, hanno demolito le baracche dell'accampamento: case di fortuna tirate su nel tempo, con divani raccolti alla meglio, arredi messi assieme mescolando pezzi, e qualcosa che somigliava al bagno quello chimico -, alla cucina, all'acqua, all'illuminazione, Tutto spazzato via. Una ordinanza del sindaco di Giugliano, Antonio Poziello, ha disposto lo sgombero per motivi di emergenza sanitaria e di ordine pubblico. È il settimo in quindici anni. Il dieci maggio l'arrivo delle forze dell'ordine e la demolizione del piccolo villaggio. Per i quattrocentocinquanta esseri umani la nuova ricerca di una terra perduta. Ma vengono respinti ovunque: facce truci, picchetti. Scritte minacciose sui muri. Mentre gli agricoltori hanno cominciato a fortificare i loro poderi: cancellate, recinzioni, sbarre di ferro per evitare che le famiglie in fuga scegliessero proprio quel posto. In loro, invece, per effetto uguale e contrario, il terrore di fermarsi. E quindi il dietro front. La paura dietro casa fa meno paura di quella lontano da casa. Così la carovana, come nel gioco dell'oca, notte tempo torna al via. Si risistema a Ponte Riccio, nel cortile di una fabbrica dismessa, a poche centinaia di metri dal vecchio campo. Niente baracche ma auto e furgoni incolonnate, qualche tendone, sedie e i tavoli. Riprende forma il villaggio smantellato. Una beffa, se non fosse una tragedia.

Ed eccole qui, le quattrocentocinquanta persone: bambini dagli occhi neri e vispi con i calzoni lisi e sulle spalle maglioni di due taglie in più, donne consumate dal tempo, uomini che non nascondono le lacrime sui faccioni neri di fuliggine. Povertà ovunque. Accanto a loro, solo un prete. Si chiama Francesco Riccio. Per sette anni è stato parroco nella zona e da lì ha imparato a conoscere le persone e a farsi amare dalla comunità. Da un anno, don Francesco è parroco, invece, alla San Pio X di Giugliano, dove organizza con la Caritas un servizio di mensa per i poveri. Da alcuni giorni, i pasti li porta a queste persone accampate senza più un campo. «Hanno bisogno di tutto dice il sacerdote -. Proviamo ad aiutarli. Sentono addosso il clima di ostilità, hanno paura di perdere anche quel poco che hanno. Si è alzato un muro di paura e diffidenza. Le condizioni del campo erano difficili, e loro stessi dovrebbero cominciare a mettere in discussione un modello di vita non più sostenibile. Ma la soluzione è demolire tutto e lasciarli vagabondare? I bambini non vanno più a scuola e anche chi cercava una integrazione, così viene spazzato via. Va conquistato uno spazio di dialogo e non si fa con le ruspe». A tentare l'impossibile nei giorni scorsi è arrivato anche il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo. «Abbiamo fame, i nostri bambini sono senza latte», urlano le donne esasperate mentre cucinano sui fuochi alti che divampano dai falò, o gli uomini in circolo che attendono il pasto, mentre qualche ragazzino dopo aver giocato nella polvere tutto il pomeriggio - già crolla dal sonno. A queste famiglie, i servizi sociali del Comune hanno proposto, come soluzione, un bonus di 5mila euro una tantum - se portano un contratto di fitto firmato e registrato. «Ma chi fitta una casa ai Rom, oggi, sul territorio di Giugliano?», riflette don Francesco. Altre soluzioni potrebbero essere quelle dei beni confiscati alla camorra. Ma anche in quel caso va combattuta una battaglia culturale. «La questione è complessa riflette don Francesco - e non si risolve con l'aggressività ma con il dialogo. Anche le comunità Rom devono scardinare alcune abitudini. Devono capire che un'epoca è finita. Una casa, un lavoro, la scuola per i piccoli: queste le cose da cui ripartire. L'integrazione è la chiave. Ma con le ruspe si demolisce, non si costruisce». Attorno a questo prete giovane, che ha conquistato la fiducia di tutti, annuiscono gli uomini più anziani. Sono i saggi. Hanno capito anche loro che il clima si è fatto pesante e che il cambiamento conviene a tutti. Forse anche per questo, dopo l'esodo, sono tornati a casa. Se questa è una casa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA