I MAESTRI | Aldo Loris Rossi, vademecum per gli studenti: «Rompere le scatole. Sempre»

I MAESTRI | Aldo Loris Rossi, vademecum per gli studenti: «Rompere le scatole. Sempre»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 30 Gennaio 2016, 12:09 - Ultimo agg. 1 Febbraio, 12:05
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Regola numero: «rompere le scatole». Altrimenti, e gli studenti ben lo sapevano, meglio cambiare corso e professore. Parola di Aldo Loris Rossi, napoletano, classe 1933, figlio di operai, architetto, docente di Progettazione alla facoltà di Architettura, accademico emerito delle arti del disegno di Firenze e vincitore di concorsi internazionali e nazionali. Autodidatta, impara arte e mestiere viaggiando tra autostop e borse di studio, dalla Norvegia alla Grecia, dalla Russia alla Cina, visita, rileva, disegna e scatta migliaia di fotografie: in archivio Aldo Loris Rossi conserva 40mila diapositive di tutto il meglio che c'è nel mondo. Frequenta artisti, architetti e letterati, si appassiona alle opere di Paolo Soleri e a quelle di Roberto Pane, che considera i migliori, partecipa a gruppi e riviste di assoluta «rottura».

Rottura?
«Sì, rottura. Come le scatole».

Quelle che diceva ai suoi studenti di «rompere»?
«Esatto».

Che vuol dire?
«Che negli ultimi settant'anni Napoli è stata devastata da una serie di palazzi terrificanti, quadrati, scatolari appunto. E io li ho sempre detestati. Il mio modello era ed è la diversità, anzi la bio diversità».

Si spieghi meglio.
«L'architettura è un organismo vivente, umano direi. Gli edifici non devono imporsi ma identificarsi con l'ambiente. Li ho sempre immaginati come una protesi della natura nel trapasso da una visione meccanicista dell'architettura a una organica ed ecologica».

E gli studenti?
«Sapevano bene con chi avevano a che fare».

Perché? Con chi avevano a che fare?
«Con un anarchico, libertario, espressionista e futuribile, ateo e amico di Pannella dal '58: i ragazzi, quelli che volevano avere a che fare con me, sapevano che la prima cosa che dovevano imparare a fare era rompere le scatole, in tutti i sensi, e chi non le rompeva poteva anche andare altrove. La facoltà di architettura è sempre stata piena...».

Di chi?
«Di scatolari».

Mica parla dei suoi colleghi professori?
«Certo».

Quelli che costruivano i palazzi quadrati per intenderci?
«Esatto: scatole. Completamente asserviti alla partitocrazia e infatti hanno goduto tutti di incarichi lottizzati. A Napoli se viviamo in questo obbrobrio è anche colpa loro. Ragion per cui mi sono sempre posto in una condizione di volontario isolamento dall'ambiente accademico, sia come professionista che come docente universitario. La verità è che sarei dovuto andar via».

Da Napoli?
«Certo. Questa città è sempre stata una provincia abbandonata sotto il dominio dei partiti. Il lavoro non c'è, e per uno che protesta, e che ha voglia di fare cose legate all'ambiente, non c'è nemmeno lo spazio. Ai miei studenti ho sempre dato lo stesso consiglio che davo ai miei figli».

Quale?
«Andar via».

In quanti le hanno dato ascolto?
«In tanti. Penso a Emiliana Gentile, molto brava, ormai da tempo lavora in Francia, a Fabrizio Colombo, abile architetto, sempre in giro per il mondo, ma sono solo due su una quantità».

E i suoi figli?
«All'estero anche loro».

Dove?
«Mia figlia è una archeologa, egittologa, lavora tra Cambridge, Milano e il Cairo, mio figlio invece fa il pediatra e vive a Lione. Hanno entrambi seguito il mio consiglio e si sono trovati molto bene. No, rimanere qui a Napoli sarebbe stato tempo sprecato. Bisogna guardare al futuro, mai al passato, prassi che invece appartiene a tanti architetti napoletani».

Di chi parla?
«Sono diversi... Pagliara ad esempio è uno particolarmente legato alla storia, alla scuola viennese, a Otto Wagner, architetto e urbanista austriaco. Nicola per me è uno che guarda al passato, io al futuro. E a me il passato annoia, mi piace fare cose futuribili non passatiste».

Chi definirebbe architetto «futuribile»?
«Salvatore Bisogni, ha insegnato composizione architettonica prima a Palermo con Vittorio Gregotti e poi, dai primi anni Settanta, nella facoltà di Napoli. Uno stalinista moralmente sano».

Che cosa ha fatto?
«Tra i suoi progetti una scuola media al Rione Traiano, una materna a via Aquileia e il mercatino di Sant'Anna di Palazzo».

Un mercatino?
«Sì, ebbe il compito di ideare un complesso in cui concentrare le attività commerciali dei quartieri limitrofi. L'obiettivo era quello di liberare le strade dalla miriade di bancarelle ma l'euforia da taglio del nastro durò poco. Appena pochi mesi dopo l'inaugurazione, l'impianto iniziò ad essere abbandonato, lo hanno fatto distruggere pur di non utilizzarlo».

Perché?
«Evidentemente non era di loro gradimento. Quello che purtroppo raramente si riesce a comprendere è che l'architettura o è rivoluzionaria o non è niente».

Addirittura?
«Sì, rischia di diventare una banale forma di elaborazione privata che non ha alcun senso. Per quanto mi riguarda ho sempre scelto la rivoluzione architettonica che vuol dire rivolta sociale, economica e ambientale. Concetti che infiammavano letteralmente buona parte dei miei studenti».

Che rapporto aveva con loro?
«Ottimo. Abbiamo fatto molte cose insieme. Viaggiavamo tanto, li portavo in giro spesso con l'obiettivo di farli entrare nell'archiettura per capire che cosa si poteva fare e cosa no. Prima si studiava e poi si partiva per andare a verificare quello che si era letto sui libri. Ho Avrei voluto che qualcuno lo avesse fatto anche con me».

Invece no?
«Figuriamoci. Da studente mi resi subito conto che i miei professori non avevano visto nulla, nessuno aveva mai viaggiato e tutti ignoravano che cosa fosse davvero l'architettura moderna».

Tutti?
«Sì, tanto è vero che insegnavano solo roba tradizionalista. Un'opera di architettura organica come la casa del portuale sarebbe stata impensabile. Un modulo che fosse integrato all'ecosistema e al paesaggio appariva come pure fantascienza».

Sta parlando della casa del portuale?
«Sì, un'unità urbana a sviluppo verticale in simbiosi con le leggi della natura. La elaborai disobbedendo e infrangendo le convenzioni dell'edilizia del tempo con un impeto artistico sconosciuto al razionalismo italiano e a quello internazionale degli anni compresi tra il 1968 e il 1980».

Torniamo agli studenti.
«Ho fatto tante cose con loro. I progetti più impegnativi li abbiamo sempre condivisi».

Un esempio?
«Eco-Neapolis: anni e anni di lavoro nel corso dei quali si sono avvicendati tanti giovani accomunati dallo stesso desiderio di realizzare qualcosa di nuovo e di audace per rovesciare il passato guardando al futuro. Così abbiamo ridisegnato tutto il waterfront, 15 chilometri di territorio per cercare di riequilibrare questa città».

Con quale risultato?
«Nessuno. Salvo quello di avere sempre ragione a distanza di molti anni. Che pure è una soddisfazione».Dice?«Certo. Sapete qual è il mio slogan? Se la memoria ha un futuro, faccio progetti a futura memoria».
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