Incurabili, un tesoro
​che l'Italia deve salvare

Incurabili, un tesoro che l'Italia deve salvare
di Vittorio Del Tufo
Martedì 9 Aprile 2019, 08:55 - Ultimo agg. 08:56
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Caro ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisoli, se c’è un luogo che, più di altri, parla ai napoletani della loro storia, della loro cultura e della loro memoria, quel luogo è il complesso monumentale degli Incurabili. In questi giorni, come saprà, i giornali stanno raccontando una storia di cronaca solo apparentemente come tante: un pavimento crollato, una slavina di pietre, uno stillicidio di crepe. E uno sgombero - non più rinviabile - di pazienti costretti a lasciare l’ospedale di Caponapoli dopo l’allarme dei vigili del fuoco. Com’era prevedibile, il crollo avvenuto nella chiesa di Santa Maria del Popolo, nel cuore della cittadella degli Incurabili, ha costretto le autorità - a cominciare dalla Asl Napoli 1, proprietaria del complesso - a correre ai ripari. Anche la Farmacia Storica, probabilmente, dovrà traslocare. Un vertice al quale parteciperà anche il soprintendente Garella, proprio oggi, ne deciderà il destino. 

Ma non è solo un ospedale, caro ministro, quello che sta cadendo letteralmente a pezzi. Il gioiello barocco degli Incurabili è un patrimonio del Paese: uno scrigno di tesori, come la Cappella Sansevero e i Girolamini. Qui è nata la grande scuola medica napoletana, di qui sono passati giganti della medicina come Cotugno, Cirillo, Moscati, Palasciano. Qui nacque la figura del mastrogiorgio. Qui è stata riaperta solo di recente al pubblico - e subito richiusa - la Congrega dei Bianchi della Giustizia, una delle più antiche istituzioni della città. 

E sempre qui - nel cuore di una città periodicamente colpita da calamità e flagelli - i medici di Caponapoli vennero considerati a lungo i giudici della vita e della morte. Come re taumaturghi: padroni del nostro destino. 
La storia degli Incurabili non appartiene, dunque, solo a Napoli e ai napoletani. Appartiene a tutti. È una storia che dura da cinquecento anni. E non deve finire.

Il 23 marzo 1522 una singolare processione attraversò le vie di Napoli. Centinaia di infermi e sofferenti, molti dei quali considerati incurabili, senza speranza, attraversarono la città a piedi per raggiungere la collina di Caponapoli, dov’era un tempo l’acropoli greco-romana. Erano partiti da un ospedale-baracca, nella zona del porto, per «occupare» uno dei luoghi più salubri della città. A guidare il corteo degli infermi c’era una nobildonna catalana che avrebbe speso l’intera sua vita (e tutti i suoi averi) nell’assistenza ai malati, fino a diventare santa. 

Maria Requenses aveva preso i voti dopo essere rimasta vedova del funzionario di Ferdinando II d’Aragona Giovanni Lonc. Nel 1522 volle tener fede a un voto fatto quando era stata colpita da una grave forma di artrite reumatoide che l’aveva paralizzata. Nel santuario di Loreto, dove si era recata in pellegrinaggio, un sacerdote lesse dal Vangelo la frase ait paralitico: tibi dico, surge e Maria fu toccata dalla grazia. Al ritorno dal santuario, fondò un ospedale per la cura di ammalati rifiutati da altri ospedali. Nacque così, nella collinetta che un tempo aveva ospitato templi e riti pagani, il complesso degli Incurabili: dalla tenacia di una donna che si sentiva strumento della carità divina. 

Agli Incurabili arrivarono i più grandi maestri della medicina, tanto rinomati da attirare pazienti da tutto il reame. Nacque anche un reparto psichiatrico, noto come la pazzaria di Caponapoli, che arrivò a ospitare ben duecento malati di mente, divisi in categorie: i malinconici, i maniaci, i fatui, detti anche «scemi di cervello». I più eccitati venivano affidati a uno stravagante dottore, Giorgio Cattaneo, detto Mastro Giorgio, che calava nell’acqua gelata i poveri pazienti neurolabili, convinto che la follia fosse dovuta alla presenza di meningi anormali e a un’eccessiva concentrazione di nervi nelle tempie. L’acqua gelata avrebbe fatto al caso loro. Tra i tesori nascosti nel complesso degli Incurabili vi è un luogo ancora oggi piuttosto sinistro, il «pozzo dei pazzi», un buco nero - profondo una quarantina di metri - dove il mastrogiorgio calava le persone in stato di forte agitazione per farle calmare.

Agli Incurabili furono accolte anche tantissime prostitute, emarginate, «incurabili» per la società, molte delle quali in stato di gravidanza. Maria Longo sapeva bene che per spiegare il concetto di misericordia l’Antico Testamento utilizzava il termine ebraico rahamin, che nella lingua di Davide indicava anche l’utero, il grembo della donna. Fu una misericordia tutta materna quella praticata dalla fondatrice dell’ospedale, che in un’epigrafe posta all’ingresso del chiostro di Santa Maria delle Grazie fece scrivere: Qualsiasi donna/ricca o povera/patrizia o plebea/indigena o straniera/purché incinta bussi/e le sarà aperto.

La parola «misericordia» riecheggiava spesso, nel cortile degli Incurabili. La stessa genesi del capolavoro di Caravaggio, le Sette Opere di Misericordia, è da ricercare in questo luogo. All’alba del Seicento la capitale del vicereame, vista dalla collina di Caponapoli, è un orizzonte cupo di stracci, miseria e degrado. Un gruppo di gentiluomini prende l’abitudine di riunirsi tutti i venerdì, sempre alla stessa ora, davanti al «pozzo dei pazzi» di Mastrogiorgio. Sono in sette, si conoscono da ragazzi e decidono di dedicare la loro vita alle opere di misericordia corporale previste dalla tradizione cattolica: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, curare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. La prima pietra del Pio Monte della Misericordia nasce simbolicamente proprio nel cortile degli Incurabili. Nel 1606, infatti, avviene l’incontro dei sette aristocratici (che decidono di raffigurare con una pala d’altare le opere di carità) con Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un uomo in fuga, perché accusato di aver ucciso, a Roma, il giovane Ranuccio Tomassoni, durante una lite. Dall’unione di quegli spiriti inquieti nascerà uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi.

L’ampio scalone in piperno sul versante sud del cortile conduce all’originario corpus architettonico cinquecentesco, mentre nell’ex monastero delle Pentite sorge il Museo delle Arti Sanitarie e di Storia della Medicina. Eccole qui, le stanze della memoria: vi sono custoditi stampe e strumenti medici, vecchi ferri del mestiere, tantissimi libri, antiche ricette, il prototipo di uno dei primi biberon in vetro, macchine anatomiche del Settecento in cartapesta con il corpo scomponibile e girevole, i primi microscopi, i clisteri d’epoca, gli attrezzi dei primi barbieri che si trasformarono in chirurghi, gli alambicchi progettati da Giambattista Della Porta e riprodotti in una stanza del Museo.  Ed ecco la preziosa raccolta di vasi in maiolica e ampolle in vetro della Farmacia Storica: non v’è oggetto che non racconti l’evoluzione di una scienza che dall’Illuminismo in poi, grazie a un’élite scientifica probabilmente senza pari in Italia, comincerà ad affrancarsi dalla tradizione alchemico-esoterica per aprirsi al futuro. Le sale espositive sono intitolate a tre numi tutelari della scuola napoletana: Domenico Cotugno (anatomista e chirurgo, considerato il «longevo maestro» che traghettò l’arte medica dall’Illuminismo alle nuove frontiere dell’Ottocento), Domenico Cirillo (clinico e botanico, rampollo di illustri scienziati, ancora oggi ricordato soprattutto come eroe della Rivoluzione Napoletana del 1799) e Giuseppe Moscati (il «medico dei poveri» canonizzato da papa Giovanni Paolo II nel 1987).

Ma è sopratutto la Farmacia Storica degli Incurabili il luogo per eccellenza dell’incontro tra scienza e arte. Le riggiole, le maioliche, gli intagli dorati, i portali marmorei sormontati da vasi e mascheroni diabolici. Tra i forni, i mortai e gli alambicchi v’è ancora una grande urna marmorea contenente la famosa Teriaca, ovvero la panacea per ogni male, il farmaco-non-farmaco messo a punto da Mitridate, re del Ponto, contenente oppio, carne e pelle di vipera e citato anche in una delle canzoni napoletane più famose di tutti i tempi, ‘O Guarracino.

Caro ministro, di tutto questo parliamo quando parliamo degli Incurabili. In questi giorni cresce la mobilitazione per sottrarre alla rovina questo straordinario patrimonio. Occorre il contributo di tutti. Senza liti, per una volta. È difficile farsi strada nell’intreccio di competenze: alcune fanno capo alla Asl, altre alla Soprintendenza, cui spetta il compito di trovare soluzioni tecniche per svuotare (o, viceversa, mettere in sicurezza) la Farmacia, la Chiesa e il museo. La cifra necessaria per i lavori potrebbe superare i 50 milioni. Quel che è certo è che la città che tanto decanta i suoi tesori - d’arte e cultura - può accettare che gli ammalati vengano trasferiti, per motivi di sicurezza, in un altro ospedale, ma non può assistere, inerme, alla rovina di un pezzo della sua storia. Una storia che dura da cinquecento anni. E che non deve finire.
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