«Io, dalla cella di Nisida a pizzaiolo:
nei vicoli è possibile risorgere»

«Io, dalla cella di Nisida a pizzaiolo: nei vicoli è possibile risorgere»
di Giuliana Covella
Mercoledì 25 Settembre 2019, 23:11 - Ultimo agg. 26 Settembre, 18:56
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«Ai giovani di questo quartiere e di tutti i quartieri a rischio di Napoli dico: cambiate vita. La scelta della criminalità non porterà a nulla, se non al vostro fallimento. Se io ce l’ho fatta, potete riuscirci anche voi». Vincenzo Capasso, 30 anni, è un ex ragazzo difficile dei Tribunali, cresciuto a stretto contatto con giovani che poi sarebbero diventati boss o affiliati. A 16 anni è finito in carcere per uno scippo e, dopo aver scontato la pena a Nisida, ha avuto una seconda opportunità, nonostante i mille ostacoli trovati sul suo cammino. Una madre morta in tragiche circostanze quando lui era soltanto un ragazzino, un papà sbandato e alcolizzato che, dopo la morte della moglie, ha cacciato di casa Enzo, costringendolo a dormire per strada ancora minorenne. E un passato da dimenticare, fatto di amicizie sbagliate e compagni di una vita visti finire in carcere o che oggi continuano a fare «quella vita solo apparentemente bella». A fine luglio Enzo ha inaugurato il suo primo locale, Casa Capasso, una trattoria-pizzeria in via Tribunali 292, dove ad accogliere i clienti tra le mura antiche che confinano con San Lorenzo Maggiore ci sono i panni stesi «per riprodurre i vicoli dei Decumani». E a gennaio una nuova sfida: l’inaugurazione di una sede anche a Milano. Ma oggi il giovane pizzaiolo lancia un appello ai ragazzi del suo quartiere: «Non vi lasciate ammaliare dalla criminalità».
 
Allora Enzo, quando ha aperto il suo locale?
«A fine luglio. Ho voluto dare un segnale ai tanti giovani sbandati di questo quartiere, che credono di non avere alternative alla strada. Invece non è così».

In che senso?
«Io sono nato in questi vicoli. Come molti ragazzi di oggi, ho commesso tanti errori quando ero minorenne. Perché ero stato abbandonato da tutti, a partire dalla mia famiglia. Così mi sono ritrovato sulla cattiva strada. Ma, dopo aver pagato per i miei errori, sono riuscito a rifarmi una vita».

Ci racconta la sua esperienza?
«Avevo 12 anni quando ho iniziato a lavorare in un bar per aiutare i miei genitori. Ho fatto il cameriere, il fabbro. Poi a 16 anni ho perso mia madre, a causa di una trasfusione di sangue infetto, quello dello scandalo Poggiolini. Aveva 44 anni quando morì e io mi sentii perso».

Poi cosa successe?
«Io sono il più piccolo di tre fratelli. Subito dopo la morte di mia madre, mio padre mi cacciò di casa. Era sempre ubriaco, sperperava tutto nel gioco d’azzardo. Finanche una somma di grossa entità frutto del risarcimento per un incidente d’auto. A quel punto mi vidi spaesato, senza nessun aiuto. Non avevo nemmeno un euro in tasca, costretto a dormire in strada e indossando sempre gli stessi vestiti. Quando potevo mi accampavo nelle auto. Alla fine mi feci coinvolgere da un gruppo di amici. Erano piccoli delinquenti e già parlavano come boss».

Perché come boss?
«Per chi cresce in questi quartieri la mentalità è da ignoranti. Sei un codardo se non riesci a dare prova della tua forza, scippando o rapinando qualcuno. Così dovetti dimostrare che non temevo nulla e scippai una donna, portandole via tutto ciò che aveva addosso. Ma fui colto in flagrante dai poliziotti e mi arrestarono».

Eppure proprio la detenzione a Nisida le ha insegnato qualcosa, giusto?
«Sì. Lì ho capito che avevo sbagliato e che dovevo imparare un mestiere. In tutte le materie dei corsi che seguivo avevo la media del 10 e quando il giudice Marina Ferrara mi incontrò la prima volta, leggendo i miei voti mi chiese stupita “ma sei proprio tu questo?”. Non la ringrazierò mai abbastanza perché ha creduto in me e mi ha dato un’altra possibilità».

Dopo il carcere cosa ha fatto?
«Uscii e vinsi un premio di 1.800 euro grazie al profitto nello studio, che mi fu consegnato al Tribunale dei minori. Con quei soldi comprai un motorino per cercarmi un lavoro. Così ho iniziato a fare il cameriere, il fabbro e il pizzaiolo, quest’ultima era la mia passione. Passando nei locali più famosi del centro e del lungomare. Ma ho anche fatto volontariato nel convento delle suore di Calcutta dove lavavo e accudivo i clochard e servivo loro i pasti».

Quando c’è stata la svolta?
«Conobbi un procuratore di calcio, Vincenzo Pisacane, con cui ho deciso di aprire Casa Capasso nei vicoli dove sono nato. Perché quando ero piccolo la gente scappava da questo quartiere per la presenza della criminalità. Oggi i rischi per i giovani sono tanti, ma se c’è la volontà possono cambiare».

Come si vive ai Tribunali?
«I turisti arrivano in ogni periodo dell’anno. Io stesso accolgo tra le 250 e le 280 persone al giorno. Inutile nascondere che la criminalità esiste ma, premesso che non ho mai avuto richieste di pizzo, risponderei “ho 12 dipendenti che significano 12 famiglie da sfamare”».

Oltre all’esperienza del carcere, chi l’ha aiutata a cambiare?
«Marianna, mia attuale moglie. Era una ragazzina quando mi veniva a trovare a Nisida. Oggi abbiamo un bimbo di 11 anni ed un altro in arrivo. Per loro ho ripreso anche gli studi e mi sono diplomato all’alberghiero».

Nel suo locale ha ospitato anche calciatori famosi come D’Ambrosio dell’Inter e Ciceretti del Napoli. E a gennaio aprirà una sede a Milano. Lascerà questo quartiere?
«Mai. Ho deciso di rimanere per dare un messaggio chiaro ai giovani: non scappate. Siete voi gli artefici del vostro futuro. I soldi si guadagnano onestamente, non facendo il palo o il pusher per i clan. Così rischiate solo la vita».
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